Blog informativo sulla P4C

( philosophy for children)

di Lipman

Quando la filosofia dipinge il suo grigio su grigio, allora una figura della vita è invecchiata, e con grigio su grigio essa non si lascia ringiovanire, ma soltanto conoscere; la nottola di Minerva inizia il suo volo soltanto sul far del crepuscolo.


La parola "filosofia" ha come nella sua radice il significato "far crescere". Infatti, c'è solo una cosa che sa stupire e conquistare il nostro cuore: la parola di chi non si limita a inanellare frasi sensate e ben tornite, ma di chi ci porta più in alto o più in profondità.

Che cos'è la filosofia?

“La filosofia è la palingenesi obliterante dell'io subcosciente che si infutura nell'archetipo dell'antropomorfismo universale. “(Ignoto)

Perché la filosofia spiegata ai ragazzi?

I bambini imparano a conoscere e a gestire i propri ed altrui processi emozionali, affettivi e volitivi: imparano a conoscere se stessi e a relazionarsi con gli altri. Una scuola che intende fornire esperienze concrete e apprendimenti significativi, dove si vive in un clima carico di curiosità, affettività, giocosità e comunicazione, non può prescindere dal garantire una relazione umana significativa fra e con gli adulti di riferimento. Questa Scuola ad alto contenuto educativo, non può cadere nel terribile errore di preconizzare gli apprendimenti formali, errore spesso commesso dagli insegnanti che sono più attenti a formare un “bambino-campione”, piuttosto che un bambino sicuro e forte nell'affrontare la vita, o ancora un bambino che abbia acquisito la stima di sé, la fiducia nelle proprie capacità e la motivazione al passaggio dalla curiosità, caratterizzante la Scuola dell'Infanzia, alla ricerca. L'insegnante deve poter provare un “sentimento” per l'infanzia inteso come “sentire”, percepire e prendere consapevolezza dei bisogni reali, affettivi ed educativi propri del bambino che sono altro rispetto ai bisogni degli adulti. Il ruolo dei genitori, degli insegnanti è infatti quello di educare tutti e ciascuno alla consapevolezza di ciò che il bambino “sente” emotivamente e affettivamente, perché è proprio il passaggio dal sentire all'agire che consentirà al futuro uomo di compiere scelte autonome. Un compito importante dell'insegnante è quello di mediare i modi e i tempi di un dialogo strutturato su un piano paritario, in modo tale da consentire ad ogni interlocutore di far emergere il proprio pensiero e di metterlo in relazione con quello degli altri. E' una sfida, da parte dell'insegnate, a livello culturale, sociologica e civica ma che deve coinvolgere anche i più piccoli per dotarli di una propria capacità critica, che permetta loro di ragionare, di riflettere sulla realtà e di compiere in futuro scelte consapevoli Se la filosofia è "presa sul serio", se è misurata con i problemi reali, è davvero uno strumento di formazione della persona e di indirizzo della vita. La filosofia come felicità presente nell'attività del pensiero.

Incontrarsi è una grande avventura

“Non possiamo stare
e vivere da soli,
se così è,
la vita diventa
solitudine monotona.
Abbiamo bisogno dell’altro
per condividere sguardi
di albe e tramonti,
momenti di gioia e dolore.
Abbiamo bisogno dell’altro
che ci aiuta a vedere
e scoprire le cose che da soli
mai raggiungeremo.

Beati quelli che sono capaci
di correre il rischio dell’incontro,
permeandolo di affetto e passioni
che ci fanno sentire più persone
poiché così vivendo
anche gli scontri
saranno mezzi
di un vero incontro.”
(Testo di sr. Soeli Diogo).




Questo romanzo è rivolto, con la più grande speranza e fiducia, a tutte le persone di questa società e soprattutto a quei giovani che si muovono oggi, coi loro passi, senza esserne pienamente consapevoli, verso la scoperta della grande stanza di questo mondo poliedrico e complesso, dalle mille pareti ammaliatrici. Passi che, a dosi esagerate della conquista di una felicità che riempia la stanza del loro cuore, complementare a quella del mondo, lasciano dietro sé molte tracce superficiali che si spazzano via anche con il più debole vento della loro esistenza per poi trascinarli nel giogo del “vuoto”. Che questo romanzo “Un vuoto da decidere” sia loro di aiuto per guardare in faccia, riconoscere, combattere e vincere, con le sole armi dell’amore vero per se stessi e per il mondo, questa strana “malattia” dell’anima che colpisce chi non ha difese e che porta alla conquista di una libertà infedele e subdola.

Se la metto in pratica mi fa vivere tutta un'altra vita, straordinariamente più ricca di quella che avrei ideato fidandomi solo di me.

Solleviamoci, è ora

Noi siamo quelli
che se ne vanno
pieni di vento
e di sole
in deserti
affollati
di illusioni
e non tornano più
abbagliati
da spaccati di vita.

Siamo riflessi
di affetti
profondi.
Pensieri
di fresca rugiada
posata sulla notte
che non conosce
nuvole.

Siamo i sospesi
tra sogno e realtà,
quelli sul sottile confine
tracciato
dai meandri
dei desideri.

Siamo splendide bugie
di una terra
che fatica
ad alzarsi
sui marciapiedi
della vita.

Siamo polvere
di un tempo
inesorabile
che ci riporta
tra le caverne opache
dei ricordi.

Siamo l’urlo
di amici perduti
non ancora tornati,
che raccoglie
sogni lanciati
su nuvole rosa
gonfie di cuore
nel cielo sospeso
della gioventù.

Siamo parole
mai dette
intrappolate
tra i rami
scheggiati
di un inverno
che fatica
nel risveglio.

Siamo vita
che scoppia
nei focolai spenti
accesi dal giorno che nasce
a dispetto di tutto.

Preghiere
Strappate ai silenzi
concessi da un Dio
che non ama
piangersi addosso.

Siamo
l’andata e il ritorno
di noi stessi.

Solleviamoci.
E’ ora.

PAESE MIO

Paese mio
cinto a primavera
di riccioluti gorgheggi
affaccendati
come comari
nel via vai del giorno
ti vai combinando
tra nuvole ariose
all’orizzonte
e sogni fermi
dietro vetri antichi.

Tu non conosci gli anni.

Il tuo grembo
avrà sempre un vecchio
davanti ai tuoi tramonti
aggrappato
ai sapori di campagna
mentre torna stanco
con le zolle in mano
cantando
la fatica della terra.

E non conosci spazi.

Sei tutto lì
che vivi di germogli
seminati
nei cuori della gente
che s’adatta
all’ombra
dell’inverno
mentre fuori
è estate.

Per questo
non ti mancano
i sorrisi
strappati ai vicoli
intrecciati e bui
come strette di mano
nel bisogno
tra calde mura
di camini accesi.


Tra gli alberi d’ulivo
bagnati di sole
che lasciano un’impronta
tra le rughe
dei ricordi

che strada voltando
riporta
inesorabilmente
a te.



mostra di poesie

mostra di poesie
Solleviamoci, è ora


venerdì 28 settembre 2007

"Che cos’è la vita?" Simposio filosofico svolto in classe V A e V B di Pianopoli






Classe V B
- La vita è un insieme di cose.
- E’ un cammino, e grazie ai cinque sensi scopriamo il mondo che ci circonda.
- Sul questo cammino c’è la libertà di scegliere.
- Ma non dobbiamo superare i nostri limiti.
- Possiamo perciò ragionare.
- Facciamo scelte che ci portano sulla via del bene.
- La vita è un cammino verso la felicità.
- Ma la felicità dobbiamo cercarla in noi stessi.
- E’ un tesoro.
- Cerchiamo la felicità perché non c’è.
- Nel nostro tempo soggettivo: dobbiamo viverlo con gioia così ci passa in fretta.
- La felicità però è molto difficile da trovare in noi stessi.
- Come possiamo trovare la felicità?
- Stando attenti in classe, divertendoci, inserendoci nel gruppo, comportandoci bene con gli altri.
- L’importante però è non avere tanti amici, vestiti, soldi giocattoli ecc..
- La cosa più importante è accontentarsi di ciò che si ha, il resto pian piano verrà.
- La vita è anche una cosa seria.
- Non dobbiamo perciò scherzarci su
- La vita ci è stata donata da Dio e non possiamo maltrattarla facendoci del male.
- Con droghe, alcool, fuma, cattiverie ecc…
- E se io decido di farmi male e di morire quando voglio?
- Allora è meglio che Dio non te l’avesse data la vita.
- La vita va utilizzata per dare un contributo all’umanità
- Per fare scoperte nuove
- Per dare un senso
- Se vivo per essere infelice che vita è?
- Perché viviamo dunque?
- Per aiutare gli altri
- Per costruire o distruggere
- Per uno scopo
- Per ascoltare la coscienza
- Per sposarsi
- Per avere figli
- Per lavorare
- Per amare
- Per morire
- Per crescere
- Per divertirsi
- La vita prima o poi però finisce
- Viviamo per morire
- Ma perché Dio ci ha creati se poi dobbiamo morire?

Classe V A

- E’ un tempo che scorre, in cui facciamo tante cose.
- Tanti anni diversi.
- Che bisogna trascorrere bene altrimenti non ha senso.
- La vita è una cosa seria.
- Che prima o poi finirà.
- Perciò bisogna trattarla bene.
- La vita non possiamo togliercela né sciuparla perché è un dono di Dio.
- Non abbiamo nessun diritto di trattarla male, e neanche quella degli altri.
- Se la trattiamo male Dio ci manda all’inferno.
- Non è Dio che ci manda all’inferno, siamo noi che scegliamo di andarci.
- Alcuni non danno un senso alla loro vita.
- Si drogano, si fanno del male, si suicidano.
- La vita è anche rabbia.
- Sono più i giorni tristi che quelli felici.
- E’ una lotta continua per sopravvivere e per raggiungere la felicità.
- E’ davvero difficile essere felici.
- L’obiettivo della vita è cercare di raggiungere la felicità.
- Perché se siamo tristi ci facciamo del male.
- Piangi e non risolvi niente.
- Che cos’è dunque la vita?
- La vita è un cambiamento
- Non è eterna e qualcuno muore giovane, qualcun altro vecchio
- La morte fa parte della vita.
- E’ un ciclo vitale.
- E non bisogna giocarci.
- I dottori allungano la vita dei malati attaccandoli ad una macchina. E giocano con la vita.
- E’ meglio morire in pace quando dobbiamo morire e non c’è più niente da fare.
- Perché viviamo dunque?
- Per dare un senso.
- Per imparare nuove cose.
- Per scoprire il mondo.
- Per costruire
- Per ricercare
- Per lasciare il mondo meglio di come lo abbiamo trovato.
- Per scoprire le ragioni che non sapevamo
- Per sentire
- Per tramandare ai posteri le nostre conoscenza e i posteri li tramanderanno agli altri posteri.
- Per aiutare gli altri.
- Per dormire
- Per giocare
- Per nutrirci.
- Per lavorare
- Ci nutriamo per vivere o viviamo per nutrirci? Lavoriamo per vivere o viviamo per lavorare?



lunedì 24 settembre 2007

"Concedi che io possa" poesia di TAGORE

Concedi ch'io possa sedere
per un momento al tuo fianco.
Le opere cui sto attendendo
potrò finirle più tardi.
Lontano dalla vista del tuo volto
non conosco né tregua né riposo
e il mio lavoro diventa
una pena senza fine
in un mare sconfinato di dolori.
Oggi l'estate è venuta alla mia finestra
con i suoi sussurri e sospiri,
le api fanno i menestrelli
alla corte del boschetto in fiore.
Ora è tempo di sedere tranquilli
a faccia a faccia con te
e di cantare la consacrazione della mia vita
in questa calma straripante e silenziosa.

Rabindranath Tagore


E’ il momento della consapevolezza, l’estate della vita, ossia di stare seduti ai bordi dell’anima. “Stare con” la realtà, offrendo tempo e presenza così tutto, dentro di noi, diventa silenzio che si fa religioso ascolto della realtà. Rendersi presente al reale è rendersi disponibili a Dio che si prende cura di noi, ed è in virtù di questa attitudine all’ascolto che la Sapienza penetra dappertutto e ci introduce nella comprensione del mondo. Il silenzio è di per sé preghiera, l’espressione più alta. Ascoltare le creature in perfetta pace con se stessi e con esse, dando a tutte il diritto di essere, rivela l’uomo a se stesso e non è lontano da Dio che, attraverso le sue creature, bussa costantemente alla porta del cuore. Poco per volta appare chiaro che Dio è fuori da ogni setta e da ogni comunità particolare. Ed è proprio questo interesse libero per le figure più rappresentative di tutte le grandi religioni che ci permette di capire Tagore. Come in campo poetico così in quello religioso preferì incamminarsi su un sentiero libero, lasciandosi guidare dal suo temperamento, alla ricerca di una religiosità congeniale a lui, di natura panteista che perciò nega il carattere personale di Dio e sbocca in una sorta di naturalismo religioso o immanenza. La sua vita religiosa ha seguito la stessa crescita della sua vita poetica, lo stesso percorso. “Concedi che io possa” è un inno all’amore totale, alla vita totale, ad un amore e ad una vita che comprendono e annullano ogni limite, sia pure quello della morte. Tagore dirà spesso di sentirsi come un viaggiatore senza meta e senza posa, alla ricerca dei luoghi, dei momenti che, più degli altri, favoriscono quelle emozioni, quelle sensazioni che fanno ritrovare vicine e unite persone diverse e lontane e permettono loro di vivere di una sola anima, di comporre un’unica armonia. Di questa immensità dice la poesia di Tagore, di un’infinita umanità si sente partecipe, di tutte le vite vive la sua. Nel caso di Tagore si può parlare di una filosofia, di una religione e vederne la provenienza nella cultura indiana senza per questo essere rinchiusa nell’Induismo inteso in senso tradizionale. Nei versi gli è riuscito meglio mostrarla estesa, nella “Comunità di Dio” diffusa in ogni parte del creato. La sua poesia è stata la maniera più congeniale per uno che cercava dappertutto: nelle piante, nelle acque, nelle nuvole, nel vento, in ogni elemento della natura, il segno di un pensiero, di un sentimento; che voleva rappresentare l’esistenza come unica e totale, comprensiva di realtà e idea, umano e divino.







Rabindranath Tagore
Nobel per la letteratura 1913
Rabindranath Tagore
Rabindranath Tagore è il nome anglicizzato di Rabíndranáth Thákhur (
Calcutta, 6 maggio 1861Santiniketan, 7 agosto 1941) è stato uno scrittore, poeta, drammaturgo e filosofo indiano.. Mentre Gandhi, con la disobbedienza civile, organizzò il nazionalismo indiano sino a ricacciare in mare gli inglesi, Tagore si propose di conciliare e integrare Oriente ed Occidente. Opera difficile, cui egli era preparato dall'esempio di suo nonno che nel 1928, fondando il Sodalizio dei credenti in Dio, integrò il monoteismo cristiano ed il politeismo induista.. Figlio di un santo e ricco bramino, studiò nel Regno Unito ove anglicizzò il proprio cognome (Thakur). Tornato con la convinzione che gli inglesi san ben proteggere un'India bisognosa di protezione, egli si dedicò all'amministrazione delle sue terre e ad ogni forma d'arte. In liriche destinate al canto, in lavori teatrali ricchi d'intermezzi lirici, in novelle, memorie, saggi e conferenze Tagore affermò il proprio amore per la natura e per Dio, le proprie aspirazioni di fratellanza umana, la propria passione (anche erotica), l'attrattiva della fanciullezza.. Esercitò un enorme fascino anche sul mondo occidentale. Poeta, dunque, prosatore, drammaturgo, musicista e filosofo indiano, nacque a Calcutta nel 1861 e morì a Santi Niketan, Bolpur nel 1941. Profondo conoscitore della lingua inglese, tradusse in seguito le opere che prima aveva scritto in bengali. Fu il poeta della nuova India, moderna e indipendente, per la quale lottò non solo con le sue opere e con le sue iniziative di carattere sociale, ma anche con il suo fiero comportamento politico. Scrittore di brani musicali, si occupò della danza indiana e di pittura riscotendo notevole successo sia a New York che in Europa.E' soprattutto grande come poeta lirico, il cui pensiero, ispirato ad alti concetti filosofici e religiosi, lo pone tra i più grandi poeti mistici del mondo. Le più famose liriche gli valsero l'assegnazione del premio Nobel per la letteratura nel 1913.La poesia d'amore orientale presenta caratteristiche diverse da quelle con le quali la poesia occidentale esprime il sentimento d'amore. Pervasa di leggerezza, di distacco dalla soggettività, di ritualità ripetuta, evoca i vari momenti della vita nella visione spirituale che fonde sacro e profano, spirito e carne, Dio e uomo.Mistico, saggio, veggente, per il poeta orientale l'Amore coinvolge tutto l'essere umano ponendolo in relazione a Dio. Amore non solo come sentimento, quindi, ma realtà completa di tutto l'uomo che, permeandolo e avvolgendolo, lo supera e lo trasporta oltre ogni barriera tra l'umano e il divino, in una fusione intensa eppur sottile, energia che muove il cosmo. Perciò si può ben comprendere come Tagore, il grande maestro bengalese, veda nel rapporto Amato-Amante la più completa esperienza di realizzazione dell'uomo. Esperienza che, anche nel momento più buio di tale rapporto, come l'abbandono, la perdita che nulla può colmare, nella sua poesia viene illuminata dalla visione di fede. Nella casa del poeta a Jorasanko era vissuta sin dall'età di otto anni, secondo il costume indiano per le spose, Kadambari, la cognata, donna di grande cultura e bellezza. Gli era cresciuta vicino ed era la sua compagna di giochi. Si suicidò quando il poeta, obbedendo all'imposizione del padre, accettò di trasferirsi in un'altra abitazione. Gesto disperato e provocatorio, del tutto incomprensibile per la mentalità e la religiosità induista. Per tutta la vita il poeta porterà il dolore e il rimpianto di questa perdita, sentendosene responsabile. La moglie Mrnalini, pazientemente gli rimane accanto con semplicità donandogli cinque figli. Muore a ventinove anni. Una serie di lutti da questo momento segna profondamente l'esistenza del grande sognatore: muoiono due figli piccoli, il padre ed il segretario, amato come un famigliare. Dalla personale esperienza d'amore e di dolore Tagore lascia sgorgare le stupende liriche che hanno nutrito la mente ed il cuore di generazioni di lettori, anche occidentali. Leggendo le poesie di Tagore si trovano continui riferimenti alla cultura, alle tradizioni ed ai costumi orientali, particolarmente indiani. Nelle sue poesie si "odono" tintinnare i braccialetti, si "vedono" le donne attingere acqua al pozzo e il viandante stanco ed assetato venire sulla strada polverosa. In una sinfonia di immagini ecco le tartarughe scaldarsi al sole sulla spiaggia, alberi dai nomi esotici, fiori intrecciati a formare ghirlande posti al collo dell'ospite gradito e desiderato; gli elementi naturali, come le onde del mare e la luce lunare, accarezzare l'essere amato… Si "vivono" i momenti di tempo sospeso in attesa del monsone o in ascolto delle voci della natura e del cuore mentre si sta appoggiati all'uscio di casa. Piccoli grandi momenti della vita quotidiana… soffusi di armonia nella poesia intensamente appassionata eppur così delicata di Rabindranath Tagore. L'amore, come si è detto, per Tagore non è solo sentimento, ma Persona, è Dio stesso e a Lui, l'Amante eterno, che incessantemente chiama a sé uomini e donne da ogni sconfinata solitudine, è non solo possibile, ma giusto chiedere sollievo, è naturale ricevere conforto, è infinita e assoluta realtà senza la quale la vita non avrebbe alcun senso.

Fine modulo

DANIEL DE FOE "Robinson Crusoe


“Che strana opera della Provvidenza dell’uomo! ….Io che avevo un unico motivo di rammarico e cioè la lontananza dal consorzio umano; io, che mi lamentavo d’esser solo, circondato dall’oceano infinito, perfettamente isolato dal mondo e condannato ad una vita silenziosa; io che il Cielo forse non credeva degno di far parte del genere umano; io che avrei creduto di resuscitare a nuova vita, se avessi incontrato un mio simile, e avrei considerato, questa grazia come una suprema benedizione di salvezza inviatami dal Cielo, io tremavo ora al solo pensiero d’incontrarmi con un altro uomo, e avrei preferito inabissarmi, piuttosto che vedere la sola ombra o la prova silenziosa della presenza d’un altro individuo sul suolo che calpestavo. Tale è l’incontentabilità del genere umano…Riflettei che se Dio giusto e onnipotente aveva creduto bene di punirmi, egli poteva anche salvarmi, e se non credeva di farlo io avevo l’assoluto dovere di rassegnarmi completamente alla sua volontà….rivolgergli le mie preghiere e attendere pazientemente…
DANIEL DE FOE
***
L’isola è separata dal resto del mondo. E’ un cosmo a sé. Sull’isola le lancette dell’orologio scorrono a modo loro. L’isola non si attiene a orari ma a stagioni, e il tempo a bassa e alta marea. Sull’isola si vive in sintonia con la natura, si scopre se stesso avulso dalla società, un Io che in sé infuria e riposa. A volte però l’isola è metafora della disperazione, di prigionia a prova di evasione. La fuga dal mondo diventa una sciagura se si dimentica il biglietto di ritorno. Ma la prima cosa che fa Robinson Crusoe, dopo essersi messo in salvo, è costruire una fortificazione di palizzate perché lui è un ottimista e, ad ogni circostanza sfortunata, riesce a contrapporre un’argomentazione confortante, secondo il metodo per eccellenza del contraddire (antirrhesis) che ha lo scopo di eliminare ciò che turba, adottato da molti monaci orientali. La sua disgrazia non gli impedisce di agire. Intraprende la lotta per la sopravvivenza, come una rana caduta nel vaso della panna. Si crea una famiglia di animali, addirittura un hobby per il tempo libero e una routine di lavoro. Vince l’isolamento non combattendolo, ma accettandolo e dandogli un senso. Si costruisce un nuovo sistema di valori, adeguato alla situazione tanto che dice di sé “ ero il signore di tutto quel territorio e potevo eleggermi re e imperatore dell’intera isola”. Il naufragio gli appare, dopo la lettura della Bibbia che aveva trovato sulla nave, frutto di un disegno divino per sottrarsi dall’influsso negativo della società e potersi redimere. Coltiva la sua solitudine per trarne forza e un nuovo Sé. Vince il suo isolamento procedendo verso la trascendenza tanto che, quando Robinson arriva in
Europa, dichiara di sentirsi meno sicuro tra la "gente civile" e molto meno felice di quando viveva sull'isola, nonostante le peripezie e la terribile solitudine. Ciò dimostra che l’essere umano non ha soltanto un’indole sociale e le relazioni non sono l’unica panacea. L’essere umano non è solo pane ed orgasmo ma è molto di più e vuole di più. In solitudine l’uomo si abbandona al silenzio cosmico e abbraccia l’eternità come ci hanno dimostrato Buddha, Gesù, i Padri del deserto, Rousseau, Nietzsche, Wittgenstein ed altri che hanno ritrovato un tesoro spirituale nel silenzio, con lo stupore su un viso sereno. Nell'affrontare la natura, che non sempre gli è favorevole, Robinson si pone i grossi problemi dell'anima, dell'essere e del non essere, della vanità del mondo e del valore della meditazione e della solitudine. Robinson, per trascorrere il tempo, mette su carta il male e il bene della sua posizione, concludendo che il bene è superiore al male.. Con il suo romanzo Defoe riesce a cogliere, come motivo universale, il problema dell'uomo solo, davanti alla natura e a Dio, nobilitandolo con la ragione che può, secondo i ricordi cristiani o biblici della creazione, dargli il dominio sulle cose. Il carattere di Robinson a volte ci appare piatto e un po' calcolatore forse perché manca della spontaneità e delle emozioni di Venerdì., archetipo del buon selvaggio il quale fu preso a modello dallo stesso Jean-Jacques Rousseau a cui ispirò in parte le teorie pedagogiche dell'Emilio. Il romanzo prende ispirazione da un fatto vero accaduto ad un certo Alexander Selkirk che aveva trascorso quattro anni e quattro mesi su un'isola deserta in solitudine. Robinson Crusoe, pubblicato nel 1719, è considerato il capostipite del moderno romanzo d'avventura.. Daniel Defoe nacque in un sobborgo londinese, nei pressi di Cripplegate.; Daniel modificò il proprio cognome da "Foe" al più aristocratico "Defoe" Defoe non era in realtà interessato a creare o sviluppare il romanzo a fini letterari. Egli era soprattutto un giornalista e un saggista: quando scrive il suo capolavoro, il Robinson, aveva già 58 anni. Inoltre, pubblicò i suoi romanzi cercando, in generale, di farli passare per storie vere (memoriali e autobiografie) per renderli più appetibili al pubblico dell'epoca (non si deve dimenticare che il motivo principale per cui Defoe scriveva era, a quanto pare, la necessità di pagare i propri debiti).

"Chi sono io?" Simposio filosofico svolto in classe dagli alunni di V A e V B di Pianopoli



CLASSE V A


Domanda:
Chi sono io?
-
Una persona.
- Un essere umano che non può far del male ad un altro essere umano.
- Anch’io sono d’accordo con lui perché siamo tutti uguali.
- Non importa se siamo diversi, siamo tutti persone
- Abbiamo le stesse caratteristiche
- Bisogna rispettare le diversità
- Anche se una persona è di pelle scura, ha il linguaggio, di un altro continente, noi lo dobbiamo accogliere ed aiutare
- Siamo tutti fratelli
- Abbiamo gli stessi sentimenti.
- Non dobbiamo perciò ferire i sentimenti degli altri
- Dipende perché ci sono persone che non provano sentimenti buoni per i loro cari, oppure quelli che rubano e uccidono
- Nel loro cuore c’è gelosia e tante altri brutti sentimenti come l’odio.
- Dobbiamo amarci.
- Dentro l’amore non c’è posto per i pettegolezzi
- Dentro l’amore c’è solo il bene e non il male.
- Quando tu fai del bene provi gioia e la gioia è saggezza
- Dov’è non c’è saggezza c’è male e tristezza
- Dobbiamo aiutare chi è triste
- Il saggio fa una scelta
- Aiutando gli altri io faccio una scelta

Chi sono io, dunque?

- Una persona che può scegliere
- Ma bisogna saper scegliere
- Scegliere dipende dalla nostra intelligenza.
- L’intelligenza sceglie con la propria libertà
- Io sono libero di scegliere
- Libertà di scegliere "quasi" tutto...
- Perchè hai detto quasi?
- Perché quando una persona è saggia non sceglie di fare le cattiverie.
- Allora che libertà è se c’è quel “quasi”? La libertà dovrebbe essere libera.
- La libertà invece ha dei limiti.
- Ognuno ha la sua libertà
- Se io uso la mia libertà per picchiare gli altri
- Gli altri usano la loro per picchiare me
- Tutti e due escono dai limiti della libertà ed invadono la libertà dell'altro
- La libertà non esiste perché se esistesse farei tutto ciò che mi gira, agli altri
- La libertà del bene, dato che non ha la cattiveria, può avere tutta la libertà che vuole
- La libertà della bontà, dunque.
- La libertà del male ha i limiti e non ci può essere libertà del male
- Dove non c’è nessun quasi.
- La libertà della bontà sta al suo posto.
- La libertà deve finire dove comincia quella dell’altro.
- La libertà della bontà si può condividere
- La bontà alimenta la bontà, il male alimenta il male
- La libertà della bontà sta dentro di noi.
- Nella coscienza.
- Conclusione

Chi sono io?
Sono una persona che ha delle caratteristiche diverse ma che può fare delle scelte di libertà.

Classe VB

DOMANDA:
Chi sono io?

- Un essere umano
- Che sa fare tante cose
- Con i propri difetti
- In base ai suoi giudizi e pregiudizi.
- Ognuno prende la sua strada
- Siamo unici
- Con cellule diverse
- Neanche i gemelli sono uguali.
- Noi siamo simili agli animali ma non ci comportiamo come loro.
- Gli animali non hanno una coscienza, noi sì
- Noi però uccidiamo gli animali
- Noi abbiamo il linguaggio loro no
- Noi abbiamo la ragione
- Quindi basta parlare e ragionare per non essere animali?
- Non solo
- Degli animali abbiamo uguali le caratteristiche fisiche
- La scienza dice che siamo nati dalle scimmie
- La chiesa no
- La scienza è contro la chiesa e la chiesa è contro la scienza ?
- No, se ambedue collaborano per il bene dell’umanità.
- Noi siamo diversi dalle scimmie perché noi possiamo fare delle scelte, perché pensiamo
- La coscienza viene da Dio
- Senza la coscienza faremmo tutto ciò che ci pare come delle scimmie, la coscienza ci fa andare a scuola
- Ci fa fare delle scelte nella vita.
- Ognuno decide di fumare o di non fumare
- Ci sono cose giuste e cose sbagliate e non sempre si può fare ciò che si vuole
- Ognuno ha la sua libertà di scegliere
- La vita è nostra e la viviamo in libertà
- La gestiamo come vogliamo
- Non è vero, perché dobbiamo fare le scelte giuste
- Siamo noi stessi che decidiamo di fare anche le cose sbagliate
- Ci facciamo trascinare e non è più libertà questa
- La libertà vera è quando decidiamo da soli
- Quindi anche se gli altri non ti trascinano tu puoi decidere di fare del male perché vuoi essere libero?
- I genitori ci costringono per il nostro bene
- Ci sono le regole da rispettare in ogni ambiente
- Che libertà è con i limiti ?
- La libertà finisce con i limiti
- Finisce quando ci dobbiamo fermare
- Perché se li superiamo finiamo nella malasorte
- Cioè comincia il male perché si crea il non rispetto.
- La libertà si ferma dove le regole ci permettono di arrivare
- Cioè dove ha incontrato la libertà dell’altro
- La libertà ha dunque degli spazi limitati.
- La libertà vera sta dentro di noi.

-

venerdì 21 settembre 2007

John Donne "Nessun uomo è un'isola"

Nessun uomo è un'isola,
completo in se stesso;

ogni uomo è un pezzo del continente,
una parte del tutto.
Se anche solo una zolla

venisse lavata via dal mare,
l'Europa ne sarebbe diminuita,
come se le mancasse un promontorio,
come se venisse a mancare
una dimora di amici tuoi,
o la tua stessa casa.
La morte di qualsiasi uomo

mi sminuisce,
perché io sono parte dell'umanità.
E dunque non chiedere mai
per chi suona la campana:
Essa suona per te. (J.Donne)

Celeberrimi sono questi versi di Nessun uomo è un'isola contenuti in Meditation XVII e citati da
Ernest Hemingway in Per chi suona la campana e da Nick Hornby in Un ragazzo (About a Boy). Nella poesia è forte il senso di appartenenza all’umanità, forgiato dai vari tragici distacchi avvenuti nella sua esistenza. A volte però il distacco più fertile è proprio l’esilio su quell’isola, dove l’Io assorbe linfa vitale per la consapevolezza di tutte le debolezze dell’animo umano, che partono da una psicologia del “profondo” e, nell’affanno del loro solitario e silenzioso orizzonte di presenza, s’innalzano verso la volontà “dell’altezza” ricca di significati a vantaggio dell’amore universale. Infatti poi tutti abbiamo bisogno dell’affetto degli altri e gli altri del nostro affetto e del nostro sostegno. “Anche se non ce ne accorgiamo, gli altri cercano di avvicinarsi a noi come le radici di sequoia si allungano verso quelle degli altri alberi della foresta. Dobbiamo a nostra volta tendere verso gli altri e sostenerli nel loro progresso, poiché noi siamo veramente loro fratelli e sorelle. Forse che tutti non andiamo meglio quando siamo appoggiati, sostenuti e amati dai nostri familiari e amici? Anche gli alberi crescono meglio quando crescono insieme nei boschi. Crescono più alti, più diritti, più forti e producono legname migliore. Quando un albero cresce isolato, sviluppa troppi rami. Questi rami contengono nodi che possono indebolire l'albero e sminuire il valore del legname. L'intreccio degli altri ci sostiene per tutta la vita.”
Sempre in oscillazione tra natura raziocinante e appassionata poetica visionaria, in bilico tra nuova
scienza, Rinascimento e Riforma, tra cattolicesimo e protestantesimo, amore umano e amore divino, l’arte di Donne è tesa a risolvere dialetticamente, con la forza dei suoi versi, il proprio e altrui conflitto intellettuale e morale nonché a creare immagini assimilate attraverso la scienza, la filosofia e la teologia filtrate attraverso l’osservazione della realtà quotidiana. In questo senso, particolarmente alta risulta la sua capacità di concentrare con un linguaggio talvolta aspro ed attraverso brevi, laconici procedimenti analogici citazioni letterarie e bibliche, immagini assimilate attraverso la scienza, la filosofia e la teologia filtrate attraverso l'osservazione della realtà quotidiana. La sua poesia metafisica si nutre di una vasta e smisurata visione del mondo e di una riflessione che incrocia le coordinate della fantasia e dei sentimenti nella ricerca di valori estetici fatti di simboli riferibili alla realtà profonda dell’essere, oltre il visibile e il sensibile, per toccare la sostanza trascendente ed immutabile delle cose ( natura, storia, società, uomini). Donne rende la poetica filosofia e filosofica la poesia tale da portarla ad una altezza superiore che la rende nobile anche in un mondo di volgarità qual è quello attuale, con la conseguente svalutazione delle esperienze che può offrire. La sonorità della parola crea una sensazione di infinito e di eterno, oltre le impressioni sensibili, per penetrare nella profondità del reale con uno sforzo di cultura, sensibilità e sintesi concettuale e simbolica. Le sue meditazioni sono concatenate sulla decadenza e disgregazione dell’universo e sul destino dell’anima in questo mondo e nell’aldilà. Manca in Donne l'omogeneità metrica fra un componimento e l'altro: ciascuna poesia raggiunge autonomamente una propria specifica, irripetibile saldatura di forma e contenuto, in perfetta simmetria con la pluralità (di soggetti ed oggetti, e di relazioni tra essi) È lo stesso Donne, in una lettera del 1619, a distanziare drasticamente il sé attuale, l'influente predicatore Dr. Donne, dal brillante e libertino Jack Donne, autore di poesie profane ed di un'immorale difesa del suicidio (Biathanatos). La scrittura del secondo Donne si fonda su premesse che, smentendo il primato dell'apparire sull'essere, caratteristico della tradizione aristocratica, fanno dell'interiorità un valore assoluto. In realtà la ricerca poetica di Donne nel suo insieme implica una progressione ragionevolmente lineare e graduale: dall'atteggiamento libertino alla celebrazione dell'amore, poi alla sua assolutizzazione e privatizzazione con conseguente svalutazione del mondo e delle altre esperienze che esso può offrire, sino a reincludervi l'amore stesso arrivando dove lo scetticismo sconfina del misticismo. Tutti gli elementi che s'indicano come tipicamente metafisici sono presenti anche nella poesia sacra, dove l'io spesso interpella Dio esattamente nei medesimi modi e con gli stessi toni diretti e bruschi che caratterizzano il rivolgersi dell'amante all'amata E se i Songs and Sonnets più tardi – ad esempio The Canonization – fanno dell'amore una religione, gli Holy Sonnets (Sonetti Sacri) pongono Dio come l'Altro di un vero e proprio rapporto d'amore.
John Donne, pron. Dùn (
Londra, 1572 - 31 marzo 1631) è stato uno dei maggiori autori inglesi di poesia metafisica. Fu anche un prete e scrisse sermoni e poemi di carattere religioso, traduzioni latine, epigrammi, elegie, canzoni e sonetti. Cresciuto in una famiglia che professava il cattolicesimo, Donne studiò dal 1584 a Oxford e, successivamente, a Cambridge; viaggiò per l'Europa. Ritornato in patria, divenne segretario del barone Ellesmere Egerton, di cui sposò clandestinamente nel 1601 la nipote Anne More. Le nozze clandestine con Anne More non giovarono alla sua reputazione, cosa questa che influenzerà notevolmente la sua successiva produzione letteraria. Contestualmente, si avvicinò all'anglicanesimo affrontando da un punto di vista differente dubbi e tematiche politico-sociali, ma anche scientifiche e filosofiche, del suo tempo. Tra mille difficoltà finanziarie, sull'orlo della disperazione (e forse anche del suicidio), sebbene fosse ormai diventato un predicatore affermato (molti suoi lavori saranno raccolti nel 1624 nelle sue Devotions) e per due volte (1601 e 1614) membro del parlamento, prese i voti e fu ordinato decano della chiesa anglicana dal re Giacomo I d'Inghilterra. Dal 1617, anno in cui morì la moglie, la sua poesia si farà sempre più cupa, privilegiando temi funerei e pessimistiche considerazioni esistenziali.



"AMICIZIA" Kahlil Gibran

"Siamo amici. Io non desidero niente da te, tu non vuoi nulla da me.
Io e te... dividiamo la vita. "Gibran Kahlil

Cos'è per te un amico,
perché tu debba cercarlo
per ammazzare il tempo?
Cercalo sempre per vivere il tempo.
Deve colmare infatti le tue necessità,
non il tuo vuoto.
E nella dolcezza dell'amicizia
ci siano risate,
e condivisione di momenti gioiosi.
poiché nella rugiada
delle piccole cose
il cuore trova il suo mattino
e si rinfresca.
Kahlil Gibran



“E un adolescente disse: Parlaci dell'Amicizia. E lui rispose dicendo: Il vostro amico è il vostro bisogno saziato. E' il campo che seminate con amore e mietete con riconoscenza. E' la vostra mensa e il vostro focolare. Poiché, affamati, vi rifugiate in lui e lo ricercate per la vostra pace. Quando l'amico vi confida il suo pensiero, non negategli la vostra approvazione, né abbiate paura di contraddirlo. E quando tace, il vostro cuore non smetta di ascoltare il suo cuore: Nell'amicizia ogni pensiero, ogni desiderio, ogni attesa nasce in silenzio e viene condiviso con inesprimibile gioia. Quando vi separate dall'amico non rattristatevi: La sua assenza può chiarirvi ciò che in lui più amate, come allo scalatore la montagna è più chiara della pianura. E non vi sia nell'amicizia altro scopo che l'approfondimento dello spirito. Poiché l'amore che non cerca in tutti i modi lo schiudersi del proprio mistero non è amore, ma una rete lanciata in avanti e che afferra solo ciò che è vano. E il meglio di voi sia per l'amico vostro. Se lui dovrà conoscere il riflusso della vostra marea, fate che ne conosca anche la piena. Quale amico è il vostro, per cercarlo nelle ore di morte? Cercatelo sempre nelle ore di vita. Poiché lui può colmare ogni vostro bisogno, ma non il vostro vuoto. E condividete i piaceri sorridendo nella dolcezza dell'amicizia. Poiché nella rugiada delle piccole cose il cuore ritrova il suo mattino e si ristora”

Amicizia, dunque, libera da affetti disordinati pretenziosi verso l’altro, per innalzarsi in ispirito sopra se stessi e godere di un’amicizia rivelazione che va oltre l’intesa del dire, tale da comprendere anche ciò che non si è detto. Amicizia che colma il bisogno di scoprire chi siamo nel cammino della vita e non il vuoto dei giorni, che si traduce in consapevole presenza viva spirituale, per sempre.
Non sono né un artista né un poeta.Ho trascorso i miei giorni scrivendo e dipingendo,ma non sono in sintonia con i miei giorni e le mie notti.Sono una nube,una nube che si confonde con gli oggetti,ma ad essi mai si unisce.Sono una nube,e nella nube è la mia solitudine,la mia fame e la mia sete.La calamità è che la nube, la mia realtà,anela di udire qualcun altro che dica:<>.
“Amo gli esseri umani più che mai ma non mi avvicino a loro. Sono sempre alla ricerca di qualcosa perciò non sono una vera compagnia per gli uomini. C’è una solitudine in ogni uomo per arrivare ad una piena consapevolezza di Dio”. Da qui scaturisce il suo grande poema “Il Profeta” nel quale il protagonista Almustafa ( l’eletto) prima di partire dalla città, dove ha vissuto per dodici anni, lascia come testamento le risposte ai suoi fedeli sui temi più importanti della dell’esistenza umana come l’amore, l’amicizia, la conoscenza, i figli, il matrimonio e Dio. In quella città vaga tra la gente un uomo che ama tutti e ne è amato ma intorno a lui vibra un’aurea di solitudine. Lo amano ma non entrano mai in intimità con lui. Un giorno una nave parte per portarlo via e, proprio sul punto di perderlo acquistano piena consapevolezza di ciò che egli rappresenti nella loro vita e si affollano tutti sulla riva. Nel Profeta, come altrove, il dualismo, la bipolarità, si traducono nell’abbinamento di coppie tematiche contrapposte ed ogni tema si svolge per paradossi, opposizioni e parallelismi in cui il poeta fa vibrare l’eco della parola “ma” che gli appare la più significativa tra quelle pronunciate da Gesù”Ma io vi dico” per rendere il suo linguaggio un messaggio traducibile all’interno di ogni confessione religiosa. “Metà di quel che dico non ha senso ma lo dico perché l’altra metà possa raggiungervi” Ed è proprio questo che rende così affascinante la lettura di Gibran, ricca e complessa, fatta di cristianesimo ma anche di induismo e islamismo per la cui “unità” trascendente delle religioni” si perviene all’illuminazione sull’unicità dell’esistenza che comprende in sé tutti gli stati dell’essere. I testi di Gibran, sempre ambigui, si prestano a mille possibilità interpretative per un’apertura completa a un Dio senza nome e a tutti i suoi possibili nomi.
Kahlil, nasce a Bisherri, una cittadina nel Libano settentrionale, il 6 gennaio 1883, luogo circondato dai famosi "Cedri del Libano". Si chiamava Gibran Khalil Gibran e quando emigrò negli Stati Uniti a undici anni il nome gli fu abbreviato da un'insegnante inglese. Nei suoi scritti in inglese la sua firma sarà sempre Kahlil Gibran. I genitori sono cristiani maroniti, religione cattolica formata dopo lo scisma bizantino del V sec a.C., ha due sorelle, Mariana e Sultana, e il fratellastro Boutros (nato da un precedente matrimonio della madre). La sua formazione si può ricostruire attraverso gli anni neoplatonici e paganeggianti di Boston, ove emigra nel 1894 con la madre, i fratelli ed alcuni zii. Sono gli anni dell'emigrazione araba verso gli Stati Uniti e il Brasile. Il padre, semialcoolizzato, rimane in Libano forse in prigione, Gibran non avrà un buon ricordo del rapporto con lui. E la madre, Kamele Rahmè, gli trasmette la religiosità e i valori umani della sua tradizione culturale. A 14 anni Kahlil torna in Libano per frequentare la scuola superiore all' Hikmè di Beirut. In questo periodo si imbatte nel classicismo libanese che separa abissalmente i ricchi dai poveri, l'aristocrazia ed il clero dal popolo. Verosimilmente risale a questi anni il contatto più profondo e duraturo con le Sacre Scritture. Completati gli studi, nel 1897, viaggia attraverso il Libano e la Siria. Vi fa ritorno nel 1902 come guida e interprete di una famiglia americana, ma presto deve rientrare a Boston a causa della malattia della madre, che muore di tisi l'anno seguente, e sucessivamente anche i suoi fratelli. A Boston, nel 1904, conosce Mary Haskell, l'incontro più importante della sua vita. Mary sarà sua mecenate, collaboratrice, amica, musa, e più tardi curatrice delle sue opere. Mary rappresentò un sostegno decisivo per lui, morale e materiale. Si sono incontrati all'esposizione di alcuni quadri di Kahlil presso lo studio di un amico fotografo. Mary che ha 10 anni più di lui, è preside di una scuola femminile. Grazie ai suoi contributi Gibran studia pittura a Parigi, tra il 1908 e il 1910, all'Acadèmie Lucien (accademia delle belle arti di Parigi). Legge Voltaire e Rousseau, Blake, Nietzsche. Tornato negli Stati Uniti (1912), va a vivere a New York dove apre uno studio, da lui definito nei suoi scritti "l'eremo" si dedica contemporaneamente alla letteratura e alle arti figurative. Le prime biografie di Gibran, non sono completamente affidabili, in quanto tendono ad alimentare il ruolo di Guru che molti ammiratori già vedevano in Gibran. Il primo studio serio su di lui è quello di Kahlil S. Hawi, pubblicato a Beirut nel 1963. La salute di Gibran è piuttosto minata negli ultimi anni di vita che trascorre tra New York e Boston, dove vive e lavora sua sorella Mariana. Muore a New York, di cirrosi epatica e con un polmone colpito da tubercolosi, il 10 Aprile 1931, aveva 48 anni. Gibran è sepolto in un antico monastero del suo paese d'origine, secondo la sua volontà.

mercoledì 19 settembre 2007

JUAN RAMON JIMENEZ .: Poesia " Io non sono io"





Io non sono io.
Sono colui
che cammina accanto a me
senza che io lo veda;
che, a volte, sto per vedere
e che, a volte, dimentico.
Colui che tace sereno
quando parlo,
colui che perdona, dolce, quando odio,
colui che passeggia là dove non sono,
colui che resterà qui quando morirò.
Da Eternidades

Chi c’è dentro di noi? Chi mettiamo dietro, a fianco, davanti, sopra e sotto di noi? Dov’ è la nostra anima quando non siamo presenti nell’attimo? Cosa vorremmo veramente dire quando ci nascondiamo dietro le parole? Come stiamo decidendo chi voler essere? Cosa gli altri ricorderanno di noi quando moriremo, un Nome o ci dimenticheranno presto? “Io non sono io”. Un poeta che vuole “uscire da sé”. Ansia di eternità come il poeta stesso definì la sua opera riferendosi a quel vivo desiderio quasi ossessione di identificarsi con il bello dell’oggetto contemplato per essere libero come lui, al di fuori del tempo e della natura dell’uomo. La sua poesia si distingue per la squisita delicatezza del sentimento al fine di raggiungere la “purezza” intesa come astrazione delle realtà corporee che riflette sulla solitudine e sofferenza. Da principio il poeta non ha che vagamente il senso del nulla che lo circonda e le cose appaiono in una luce melanconica, irrimediabilmente perdute, eliminando in partenza il rapporto intimo e profondo con esse:il nulla è incapace di elevarsi alla contemplazione del mondo. Conquistato poi l’amore che gli mancava, grazie alla moglie Zenobia, si distacca dal nulla per raggiungere quella stagione totale, piena, al limite di quell’assoluto in cui potrà raccogliere il frutto della sua fede. Scopo della sua vita e della sua poesia diviene quello di cantare se stesso, fino a trovare poi il modo di andare aoltre la sua oggettività per rendere oggettiva la sua soggettività, liberando così la sua esistenza limitata dall’incubo della morte, a favore dell’eternità. Jimenez intravede nella bellezza d’animo, che sa cogliere il bello in ogni cosa, quella luce intesa come coinvolgimento emotivo spirituale che porta alla gioia, per la quale si possono sublimare i propri sentimenti quotidiani e che fa della nostra vita un capolavoro. Il suo fu, dunque, un continuo anelito di anni verso la latitudine spirituale” Chi canta la bellezza, anche solo in mezzo al deserto, avrà un pubblico” dice Gibran. Quel pubblico è l’ Io che si congiunge all’universo visto con occhi nuovi che ci porterà a scoprire in noi stessi la presenza di Dio. Il tema della morte così ricorrente nella poesia di Jimenez, sta a significare la fugacità dell’uomo. Ma l’attardarsi è anche un tentativo per comprenderla ed accettarla. Questa poesia nasce dallo sdoppiamento dell’Io, dalla lacerazione dell’essere che non vuole rinunciare a niente ed implica la necessità di risolversi per potersi poi relazionare col mondo intero. Chi sono io? Sono un animale perchè respiro, mangio, posso riprodurmi come tutti gli animali. Le piante non si riproducono anche loro? L’uomo può decidere di non mangiare? L’uomo vive soltanto per respirare, nutrirsi e riprodursi? Una volta eravamo scimmie. Le scimmie di oggi diventeranno uomini? Mi posso sposare con una scimmia? Sappiamo davvero ciò che c’era milioni di anni fa?No, io non sono un animale perché sono intelligente. Sono sempre intelligente? Basta essere intelligente per non essere un animale? Se uno non è intelligente allora è un animale? Gli animali non parlano io sì. Siamo più umani se chiacchieriamo tanto? E un bimbo nella pancia della mamma lui è un animale? Gli uomini costruiscono il mondo. E quando lo distruggono?Quando muoio mi seppelliranno. Questo rende la mia morte diversa da quella di un animale? Quindi lasciare il proprio corpo alla scienza non è umano? Chi sono io? “A volte ti vedi piccolo ed inutile, altre sembra che il mondo non possa fare a meno di te. Per alcuni diventi la persona più importante della loro vita, per altri persino un fastidio a vedersi, brillante o addirittura squallida. Si vive nei continui contrasti; gli altri ti danno cento volti ed infine, ti ritrovi ad avere anche cento cuori e li sfrutti tutti per come ti rende comodo. Sei docile con chi è docile, aggressivo e ti difendi con ti assale; profondo, se hai il mare davanti, superficiale se non ti serve scendere con chi non ne ha voglia. Ognuno ti conosce per ciò che hai trasmesso di te, riflesso nello specchio del volto che hai davanti. E la gente si meraviglia quando sente dare un giudizio su di te che non corrisponde al suo. Ma è così. Non c’è mai una fine perché la verità non sta in un solo volto né in un cuore solamente. La verità è ciò che provi in quell’attimo davanti a te stesso e gli attimi non finiscono mai. Neanche tu lo sai come potresti reagire in una situazione nuova e nessuno saprà giudicarti mai in nessun tempo.””tratto dal romanzo “Un vuoto da decidere”. Scelgo ciò che sono per sfuggire a me stesso, per essere semplice spettatore della vita o aprirmi al mondo, capirlo e fare delle scelte importanti per il mio bene e quello della collettività? Una cosa è certa faccio parte del grande cerchio della vita, ho la consapevolezza di essere mortale e mi assumo delle responsabilità pur avendo gli stessi bisogni degli animali. Ho libertà di scegliere ma la libertà “buona” non ha confini, la libertà “cattiva” sì perché ci rende schiavi delle nostre paure. Jimenez nasce a MGUER, Andalusia, nel 1881. Nel 1956 viene insignito del premio Nobel per la letteratura. Esiliato dalla Spagna da generale Franco, allo scoppio della guerra civile, visse a lungo negli Stati Uniti, a Cuba e a Puerto Rico. Le principali raccolte delle sue poesie sono: anima di violetta, Arie tristi, Giardini lontani. Dimenticanze. L’opera più nota è forse Platero e io, tutte scritte dal 1900 al 1917. Muore a San Juan de Puerto Rico nel 1958. Il romanticismo domina la prima parte della poesia di Jiménez. In Arias tristes vi è una immagine di grande dolcezza e di mesta elegia che si farà sentire in tutto il primo Jiménez. In Arias tristes il poeta elabora un lessico ristretto che costituisce un paradigma di simboli intorno alle immagini della notte, della luna, del giardino.,La comunione con la natura si fa sentire nella percezione magica di un tempo che non ha tempo, di uno spazio lontano, quello del villaggio e quindi quello di una infanzia salvatrice. Nei suoi paesaggi risuonano le cadenze della poesia di Verlaine con il ritmo di una solitudine crepuscolare. Ma in Eternidades il poeta esordisce dichiarando il proprio disaccordo con tutta la sua precedente poesia troppo soffocata dalle immagini. In Eternidades e nelle raccolte successive, Piedra y cielo, Poesia e Bellezza, la parola acquisisce maggiore arricchimento e diventa sempre più profonda nel significato per la conoscenza delle cose designate al di là della loro apparenza. Il punto di arrivo della ricerca di Jimenèz si trova in La estacìon total. Ora, anche la morte, come fine del tempo, acquista un senso positivo e il poeta impara il linguaggio dell'universo nelle manifestazioni della natura accettando così l'ascendenza platonica e romantica. La poesia di Jiménez segue un percorso ben preciso che va dal simbolismo ai miti della perfezione formale passando dalla musicalità esteriore ad una musica sottile che nasce dall'interno. Vladimir Weidlé definisce la poesia di Jimènez "Mistero in piena luce" e la definizione è perfetta per disegnare i contorni di una poesia tesa tra intelligenza e passione, tra estasi e domanda, tra natura e spirito. Una poesia che ha il valore di simbolo nel paesaggio così diverso della lirica novecentesca, la lirica di un solitario, instancabile ricercatore di emozioni.

sabato 15 settembre 2007

FILO-SOPHINI si nasce: Poesia "Solleviamoci, è ora"

FILO-SOPHINI si nasce: Poesia "I giovani sono i giovani"

I GIOVANI SONO GIOVANI

I giovani sono belli. Tu li ami, Gesù.I giovani sono ribelli. Tu li ami.A giovani sono strani. Tu li ami.E giovani si perdono. Tu li vai a cercare.I giovani se ne vanno lontano. Tu li aspetti.I giovani amano. Tu vivi nel loro amore.I giovani sono confusi nell'amore. Tu hai compassione.I giovani sparano cavolate. Tu dici... "cresceranno".I giovani hanno immense potenzialità. Tu ne favorisci lo sviluppo.I giovani sono infantili. Tu non li condanni.I giovani hanno dentro ogni vocazione. Tu li chiami.I giovani ti offendono. Tu li perdoni.I giovani hanno le ali. Tu gli offri l'azzurro dell'immenso cielo.I giovani ti abbandonano. Tu vai a morire da solo.I giovani si drogano, bevono, fanno sesso.
Tu pazienti e proponi una vita esigente.I giovani fanno compromessi. Tu li inviti alla radícalìtà.I giovani sono provocatori. Tu mantieni la calma.I giovani vanno fuori di testa. Tu mantieni l'equilibrio.I giovani sono menefreghisti. Tu ti interessi di loro.I giovani sono entusiasti. Tu apri loro le vie dell'universo.I giovani perdono tempo. Tu li apri all'eterno senza tempo.I giovani fanno peccati. E tu non scagli la pietra.I giovani sono gioia. Tu la moltiplichi nel loro cuore.I giovani cantano, ballano, sono musica. Tu sei la loro danza.I giovani sbagliano. Tu li capisci.I giovani sono GIOVANI. Tu sei il loro Dio Giovane.I giovani: Tu fissi il tuo sguardo d'amore su ogni generazione e Li ami.E io, Signore? E noi...?
Don Giosy Cento

“SIGNORE, HO IL TEMPO"Michel Quoist





Una vita segnata da un forte senso di ricerca interiore, dalla genuinità della sua fede e da una continua attenzione all’uomo e alla sua storia.

«Sono uscito, Signore, fuori la gente usciva. Camminavano e correvano tutti. Correvano per non perdere tempo, correvano dietro al tempo, per riprendere il tempo, per guadagnare tempo! "Arrivederci, signore, scusi, non ho il tempo. Ripasserò, non posso attendere, non ho il tempo. Termino questa lettera perché non ho il tempo. Avrei voluto aiutarla, ma non ho il tempo. Non posso accettare, per mancanza di tempo. Non posso riflettere, leggere, sono sovraccarico, non ho il tempo". Vorrei pregare, ma non ho il tempo…Tu, che sei fuori del tempo, sorridi, o Signore, nel vederci lottare con esso, e Tu sai quello che fai! Signore, ho tempo, ho tutto il tempo che Tu mi dai: gli anni della mia vita, le giornate dei miei anni, le ore delle mie giornate, sono tutti miei. A me spetta riempirli, serenamente, con calma per offrirTeli… Non Ti chiedo, oggi, o Signore, il tempo di fare questo e poi ancora quello; Ti chiedo la grazia di fare coscienziosamente nel tempo che Tu mi dai, quello che Tu vuoi che io faccia» M. QUOIST
Come scrisse egli stesso: «Per chiunque e in qualunque circostanza è sempre possibile incontrare Dio: basta anche dedicarGli “dieci minuti”». Il tempo purtroppo ci domina, è burocratizzato e capitalizzato. I superattivi, dominati dall’orario e dal rendimento; questi agitati, paurosi di non fare mai abbastanza e di non essere mai abbastanza importanti: in realtà essi non vivono! La smania del fare è uno dei più potenti fattori di distruzione della vita spirituale e della meditazione. Troppo spesso l'uomo moderno si trascina perchè non ha più la possibilità, o non la sa più trovare, di fermarsi. Poiché vi ha sempre rinunciato, egli non osa neppure più raccogliersi, perchè si troverebbe brutalmente messo di fronte a responsabilità che gli fanno paura. Correre gli dà l'impressione di vivere. In effetti egli si stordisce, fugge a se stesso e si condanna alla vita istintiva. Non è più uomo! Ha ridotto lo spazio per un ascolto autentico e non ha più nostalgia e rimorsi. Come bloccare questa febbre della vita moderna? Come vivere? Accettare di fermarsi è il primo atto che potrà permettergli di restituirsi a se stesso. Vivere in uno stato di consapevolezza abitando il presente per acuire il proprio sentire, verbo dell’attenzione cosciente, ed essere al centro dell’agire. Imparare a prendere il tempo necessario in un rapporto di amicizia con le cose che ci circondano, proprio come Robinson Crusoe nella sua solitaria permanenza sull’isola, “fuori dal tempo”; educarsi alla calma e al giusto distacco, incontrare il proprio corpo e ascoltare gli altri che hanno bisogno di essere amati quando nessuno si accorge più della loro solitudine. Chi non sa vivere il minuto, perde l’ora, il giorno, la vita. Se si ha paura di fermarsi, è perchè si ha paura di incontrarsi, forse perchè non si è più in intimità con se stessi, temendo i propri rimproveri e le proprie esigenze. L’uomo non può colmare il vuoto cercando il chiasso, un giornale, una conversazione, una presenza... Non può attendere che Dio lo fermi per prendere coscienza che esiste. Sarebbe troppo tardi e non ne sarebbe più degno. (Michel Quoist nasce a Le Havre nel 1921. Dopo essere stato dirigente della JOC (Jeunesse Ouvriere Chrétienne), entra in un seminario per vocazioni adulte. Ordinato prete, si laurea in Scienze Sociali. Dopo quattro anni di vicariato in una parrocchia popolare di Le Havre, è incaricato come direttore spirituale di diversi movimenti giovanili della sua diocesi e nominato segretario generale del Comitato Episcopale Francese per l’America Latina.
Articolo pubblicato su Settimana di Calabria


da Sina Mazzei

venerdì 14 settembre 2007

Poesia "Solleviamoci, è ora"



( dedicato alla Calabria)


Noi siamo quelli
che se ne vanno
pieni di vento
e di sole
in deserti affollati
di illusioni
e non tornano più
abbagliati
da spaccati di vita.
Riflessi di affetti
profondi.

Siamo pensieri
di fresca rugiada
posata sulla notte
che non conoscono
nuvole.

Siamo quelli
sospesi
tra sogno e realtà,
confine sottile
tracciato
dai meandri dei desideri.

Siamo
splendide bugie
di una terra
che fatica ad alzarsi
sui marciapiedi
della vita.

Siamo polvere
di un tempo
inesorabile
che ci riporta
tra le caverne opache
dei ricordi.

Siamo l’urlo
degli amici perduti
e non ancora tornati,
che raccoglie
quei sogni lanciati
su nuvole rosa
gonfie di cuore
nel cielo sospeso
della gioventù.

Siamo
parole mai dette
intrappolate
tra i rami
dai contorni scheggiati
di un inverno
che fatica
nel risveglio.

Siamo,
anche
vita che scoppia
nei focolai spenti
delle case
ad accendere
il giorno che nasce
a dispetto di tutto.

Preghiere strappate
ai silenzi
concessi da un Dio
che non ama
piangersi addosso.

Siamo
l’andata e il ritorno
di noi stessi.

Solleviamoci.
E’ ora.

autrici Sina Mazzei















mercoledì 12 settembre 2007

LA STORIA DEI FILOSOFI ANTICHI SPIEGATA AI RAGAZZI

Da Nicola e Saul Celora

NICOLA CELORA, bergamasco, vive con la moglie e sei figli in Brianza. Si è laureato all'Università Cattolica di Milano dove ha avuto come maestri Giovanni Reale, Adriano Bausola e Alessandro Ghisalberti. Dal 1990 si dedica all'attività di insegnamento e formazione in vari contesti. Attualmente insegna filosofia e storia presso il Collegio della Guastalla di Monza. A fianco alle sue attività di docenza ha maturato esperienze nel campo socio-assistenziale in area minori.




Chi sono i filosofi?Hanno inventato fiabe? Alcuni sì ma non sono favole abitate da orchi e animali parlanti ma dalle cose che vediamo intorno a noi. I filosofi hanno la capacità straordinaria di conservare anche da grandi la stessa curiosità dei bambini. E così tutte le storie sono nate dal desiderio di spiegare la ragione delle cose. Filosofo significa “amico del sapere” I filosofi infatti amano le ragioni che stanno dietro le cose per diventare sapienti. I filosofi sono bambini mai cresciuti. Perché c’è il mondo? Perché le cose si muovono… ecc? Il mondo è un pacco regalo il più grande che abbiamo ricevuto e dobbiamo scoprirlo ogni giorno di più.
TALETE fu il primo filosofo della storia. Veniva da Mileto in Grecia. Era un marinaio e viaggiava molto con la barca di suo padre ma un giorno di tempesta cadde in mare. Si accorse che l’acqua era molto più abbondante di quanto gli sembrasse dalla barca:il mare era immenso. La stessa estate venne una grande siccità che rischiò di far morire animali e piante. Solo dopo la pioggia il villaggio si risollevò. Da queste due esperienze il filosofo capì che l’acqua era il principio di tutte le cose. E naturalmente parlò a tutti di questa sua scoperta come di una cosa divina. Molta gente lo ascoltava e si rese conto che era bello domandarsi il perché delle cose.
ANASSIMANDRO fu il suo primo discepolo, era anch’egli un marinaio ma guardando il mare gli pareva che Talete avesse dimenticato qualcosa. “Il mare è grande ma non basta a fare il mondo” si disse e cominciò a viaggiare finché divenne vecchio per scoprire il segreto vero della natura. Finché un giorno tornò convinto del fatto che l’acqua non poteva essere il principio di tutte le cose ma doveva essere privo di una sua forma in modo da poter assumere tutte le forme delle cose di cui è fatto il mondo e ANASSIMENE un suo amico intuì che se tutte le cose respirano il principio non poteva che essere l’aria.

lunedì 10 settembre 2007

“DIMMELO MOLTO DOLCEMENTE”




racconto metaforico di Carlo Valles



Un ruscello, scorrendo
dalla sua sorgente
in mezzo a montagne lontane,
passando per ogni tipo
e conformazione di terreno,
giunse alla fine
alle sabbie del deserto.
Come aveva attraversato
ogni altra barriera
così il ruscello cercò
di attraversare anche questa
ma scoprì che,
non appena scorreva sulla sabbia,
le sue acque scomparivano.

Era però convinto
che il suo destino fosse
attraversare il deserto,
ma non c’era modo.
Poi una voce misteriosa,
proveniente dal deserto stesso,
sussurrò:
“Il vento attraversa il deserto
e così può fare il ruscello”.

Il ruscello obiettò che lui andava
a sbattere contro la sabbia
E veniva assorbito;
il vento invece sapeva volare:
ecco perché poteva
attraversare il deserto.

“Precipitandoti come fai di solito
Non lo puoi attraversare.
o scomparirai
o diventerai una palude.
Devi permettere al vento
di trasportarti a destinazione”.

“Ma com’è possibile?”
“Permettendo al vento
di assorbirti”.

L’idea appariva
inaccettabile al ruscello.
Dopo tutto,
non era mai stato assorbito prima.
Non voleva perdere
la propria individualità.
E, una volta che l’avesse perduta,
come poteva sapere
se l’avrebbe mai recuperata?
“Il vento”disse la sabbia
“svolge la sua funzione.
Solleva l’acqua,
la trasporta otre il deserto
e la fa cadere di nuovo.
Cadendo sotto forma di pioggia,
l’acqua torna a essere un fiume”.

“Come posso sapere
Che quello che dici è vero?”
“E’ così e, se non ci credi,
non potrai diventare altro
che un pantano
e persino così
ti ci potrebbero volere molti,
molti anni;
e di certo non è la stessa cosa
di un ruscello”.

“ Ma non posso rimanere
lo stesso ruscello
Che sono oggi?”
“ Non puoi in nessun caso”
disse il sussurro.
“La tua parte essenziale
è portata via
e forma di nuovo un corso d’acqua.
Ti chiami così anche oggi
perché non sai
quale parte di te è quella essenziale”.

Nell’udire queste parole,
echi lontani iniziarono a risvegliarsi
nei pensieri del ruscello.
Vagamente ricordò uno stato
in cui -o una parte di lui-
era tenuto in braccio dal vento.
Ricordò anche – o no?-
che questa era la vera cosa da fare,
anche se non necessariamente
la più ovvia.
E il ruscello sollevò
Il proprio vapore
Fino alle braccia accoglienti del vento,
che dolcemente e agevolmente
lo trasportò in alto e lontano
facendolo ricadere delicatamente
non appena raggiunse
la vetta di una montagna
distante molti, molti chilometri.

E poiché aveva avuto i suoi dubbi,
il ruscello fu in grado di ricordare
e registrare meglio nella sua mente
i particolari di quell’esperienza.
Rifletté :” Sì. Ora ho appreso
la mia vera identità”.
Il ruscello stava imparando.
Ma le sabbie sussurrarono:
“Noi lo sappiamo,
perché noi, le sabbie,
ci estendiamo dalla riva del fiume
fino alla montagna”.

Ecco perché si dice
che il modo in cui il corso della vita
continuerà il suo viaggio
è scritto nella sabbia.

Quando ci dicono che dobbiamo negare noi stessi, morire a noi stessi, rinunciare a tutto ciò che abbiamo e a tutto ciò che siamo, rinnegare il nostro Io come sacrificio ultimo e definitivo, è bene che ci parlino dolcemente e affettuosamente, perché non siamo preparati a questi discorsi e ci fanno male. Ci fa male negare noi stessi, abbandonare noi stessi, sminuirci, arrenderci. Ci fa male come fa male al fiume. Che sarà di me se mi libero del mio stesso Io? Che cosa sarà il fiume senza il suo letto, senza acqua, senza sponde? Chi mi assicura che rinascerò? Che cosa attende oltre il deserto? Ragionamenti e argomentazioni non riusciranno a convincermi: O potranno convincere la mia testa, ma non il mio cuore, i miei e la mia titubanza. Ma se, con tono gentile, una voce amica recita per me una poesia, mi propone una fiaba, mi racconta una parabola, ciò può aiutarmi con il tocco rassicurante di una profezia lungimirante. Il racconto della sabbia mi tocca con il fascino incisivo della semplicità. So ch’è vero. So che la sabbia ha ragione. E’ testimone della trasformazione delle acque, le ha viste sollevarsi e dissolversi in alto e poi ridiscendere in una pioggia gioiosa a formare un corso vivo che si getta nel mare. Ma il fiume non sa tutto. Vede solo le proprie acque calare di livello e ha paura. Tutto ciò che sa di se stesso è che la sua fine è vicina e il suo istinto di conservazione lo spinge a opporsi a quell’apparente distruzione. La sabbia capisce la sua paura perciò non si mette a discutere, non ha fretta, non s’inquieta. Parla lentamente affettuosamente, per infondere coraggio e fiducia e addolcisce la prova. E il fiume alla fine capisce, è pronto, si arrende. Diviene una nuvola e comincia a volare. So che per attraversare il deserto devo smettere di essere un fiume.. ma dimmelo molto dolcemente perché ho paura di volare.
Commento di Carlo Valles.
***

Cresciamo sotto l’influenza dei fattori esterni che condizionano il nostro agire, il nostro modo di sentire la vita ed arriviamo ad assorbire parte di ognuno con cui ci relazioniamo per integrarci nel gruppo nel bene e nel male, per farci così accettare ed amare ma con la paura di essere esclusi, a volte finiamo per farci condizionare anche negativamente, finchè non incontriamo qualcuno che ci apre gli occhi e ci fa conoscere mondi diversi, nuovi orizzonti di vita, qualcuno che ci spinge a cambiare, a rinnovarci, a vedere le cose con occhi diversi per aiutarci a disimparare tutte le negatività e i condizionamenti che ci bloccano nel raggiungimento della nostra libertà interiore. All’inizio sentiamo che non possiamo farcela a cambiare perché noi siamo noi e non gli altri e troviamo scuse per restare nelle nostre convinzioni che ci danno sicurezza, in una sorta di pigrizia esistenziale che ci àncora nel guscio che ci siamo costruiti. Se non impariamo a riflettere a fondo diventeremo di certo palude stagnante delle nostre abitudini ma se apriamo le porte del cuore al nuovo e impariamo a leggere e ad ascoltare tutto ciò che ci viene proposto dall’esterno potremo veramente convincerci per un cambiamento positivo, disimparando pian piano le vecchie abitudini. Il cambiamento ci fa paura perché sembra che perdiamo la nostra individualità, le nostra unicità, brancoliamo come un bimbo ai suoi primi passi con il rischio di perdere le nostre vecchie sicurezze e non poterle più recuperare, anche se non ci facevano crescere dentro, verso una socialità più aperta e matura. Il vento che nella fiaba rappresenta la saggezza, ci trasporta oltre il deserto, oltre l’aridità, oltre il ghetto delle indecisioni e ci trasforma in luce verso l’alto. Divenuti luce, riusciamo a vedere cose che prima nell’ombra non ci erano chiare, e non vogliamo più tornare indietro se non per aiutare gli altri a cambiare, ad uscire dalla grettezza e a spalancare il cuore al bene della comunità. Il segreto sta nella fiducia che si instaura nel tempo con pazienza, perché il potere della conoscenza e dell’intelligenza fa sì che la trasformazione avvenga con dolcezza in quanto capisce che la paura ci chiude in noi stessi, e ci fa capire l’essenziale di noi ch’è meglio conservare e ciò ch’ è meglio cambiare : cioè il discernimento tra il bene e il male che sta alla base del nostro vivere comune. Nella riflessione profonda arriva l’illuminazione di noi e apprendiamo la nostra vera identità grazie alla “sabbia” dunque. Chi sta già oltre la siepe perché ha già avuto la sua illuminazione può guidare chi non l’ha oltrepassata. La superficialità della vita è la ragion d’essere degli stolti.
Commento di Sina Mazzei


giovedì 6 settembre 2007

Parole come.....Gabriele D’Annunzio

"Le mie parole
sono profonde
come le radici terrene,
altre serene
come i firmamenti,
nette come i cristalli
del monte,
tremule come le fronde
del pioppo,
tumide come le narici
dei cavalli
al galoppo,
pieghevoli come i salici
dello stagno,
tenui come i teli
che fra due steli tesse il ragno. "
G. D’Annunzio



Il poeta per farci comprendere meglio come sono le s
ue parole, le ha paragonate a delle cose che si possono vedere molto chiaramente intorno a noi. Ha usato cioè delle figure retoriche quali la similitudine e il parallelismo. Le parole come mezzo di sospensione, attenzione e comunicazione soprattutto. Ascoltare è il segreto per comunicare, sia quando si tratta di persone, sia quando si tratta di dialogare con la natura. L'attenzione è sulle piccole cose, sull'ambiente più prossimo: le radici, gli alberi le ragnatele, le stelle, tutti elementi che tocchiamo con lo sguardo ogni giorno proprio come le parole che usiamo costantemente e che ci coinvolgono nella quotidianità. Parole che possiamo scegliere, che ci liberano come i cavalli al galoppo o che ci ingabbiano come i fili di una ragnatela, parole che stanno sul confine dell’indecisione: hanno timore di essere pronunciate, non sanno se fanno male quindi è meglio tacere o salvano, quindi è meglio che il problema si affronti una volta per tutte. Scelgono di tremare come le fronde sotto il vento dell’ipocrisia o della verità ma non si risolvono restando impigliate in mezzo ai teli delle due ragnatele evanescenti e fragili: tutte le cose indecise durano quanto il tempo della rugiada sotto il sole del mattino; fresca rugiada, una freschezza che porti un rinnovamento, ma anche l’antica ciclicità della natura. Le parole possono dar luogo a gravi equivoci specie se non si è a conoscenza della loro convenzionalità. Con d’Annunzio il confine tra natura e uomo si assottiglia: le parole sembrano radici che scendono in profondità, penetrano nelle viscere dell’amore, della pace e della fratellanza, abbattono barriere, sollevano ponti e cancellano confini, camminano sempre più giù, diventano fondamenta solide per case sulla roccia, scavano montagne e si inabissano nei mari portando luce a remote esistenze. Le parole sembrano stelle che cantano melodie serene vicino al talamo della vita, che portano gioia a chi è oppresso dalla fatica di vivere e non ascolta che canti stonati, che calmano perché sanno dare fiducia valorizzando le idee altrui, che avvicinano senza trattenere e lasciano andare senza allontanare, parole pieghevoli come i salici che si adattano senza assalire, che umilmente si accostano al silenzio di chi di quella voce ha fatto la sua vita, che asciugano il pianto di chi è piegato sull’acqua dello stagno e lo aiutano a non rimanere per sempre in quelle acque brulicanti sì di splendide libellule alate, ma pur sempre acque sporche. Parole pulite come cristalli lucidi, bianchi, che brillano alla luce e riflettono nuova vita futura sulle vette che toccano il cielo, non si mimetizzano dietro idee false e perbeniste per paura di essere giudicate ma spiccano in saggezza ed eternità. Sono parole duttili che si piegano al suono e alla veemenza degli elementi. Ecco il punto. Costruire una parola che pur “tenue”, sappia tessere, come un ragno, una geometrica tela di versi e suoni. Oggi trascuriamo la forza delle parole, ma non dobbiamo dimenticare che a volte paghiamo a caro prezzo le conseguenze di un loro sproporzionato o inadeguato uso. Non dobbiamo mai dimenticare che tutti noi siamo “ portatori sani “ di parole malate, che orientano impercettibilmente tutto il nostro vivere, motivano le nostre scelte, ci fanno prendere determinate posizioni rispetto a cosa sia bene e a cosa sia male, a cosa sia importante ed a cosa sia irrilevante. La "radice del pensiero è il cuore. Nel libro dei Proverbi troviamo: "Custodisci il tuo cuore con ogni cura poiché da esso sgorga la vita". Jovanotti canta così: “Quello che io penso come albero parlante è che la vita sia questione di radici, più sono profonde più ti puoi portar lontano incontrando gente, conquistando amici, perché io ho scoperto che le mie radici in fondo sono lì per procurarmi le risorse …” Dio creò tutto con la Parola e la Parola è davar. Nel momento in cui dice, la Parola diviene.”Sia luce” e luce fu. La Parola di Dio ha in sé lo spirito di vita, dunque il soffio di Dio su di noi, nel momento in cui ci creò, è la sua Parola nell’uomo, saggezza che salva e le parole tornano nel mistero del Suo silenzio.
Articolo pubblicato da Sina Mazzei su "Settimana di Calabria"

domenica 2 settembre 2007

FILOSOFIA NELL’ARTE" IL GRIDO" MUNCH




“Una sera passeggiavo per un sentiero. Da una parte stava la città e sotto di me il fiordo. Ero stanco e malato. Mi fermai e guardai al di là del fiordo. Il sole stava tramontando. Le nuvole erano tinte di rosso sangue. Mi appoggiai stanco morto a un recinto sul fiordo nerazzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco; i miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura. Dipinsi questo quadro, dipinsi le nuvole come sangue vero. I colori stavano urlando”.

Il grido198384x67 cmMunch Museet, Oslo.
Così scriveva Edvard Munch nel 1892, raccontando nel suo diario, con uno spunto decisamente autobiografico, una sofferta esperienza privata, egli stesso dicendo :'Dipingo non quello che vedo ma quello che ho visto'.
Munch, norvegese, con un vissuto personale di particolare tragicità (dirà:"Le malattie, la pazzia e la morte furono gli angeli neri che vegliarono sopra la mia culla e mi accompagnarono fin dall'infanzia") dà l'avvio a quella poetica dell'angoscia che percorre tutta l'arte di quel paese in quel periodo, da lui espressa in un linguaggio spesso affannosamente ansioso tanto da risultare incompleto e per certi versi impenetrabile all'analisi dei critici contemporanei, anche se Christian Krohg, pittore naturalista amico e sostenitore di Munch dice delle sue opere : "Oh, si! Sono complete. Uscite dalla sua mano. L'arte è completa quando l' artista ha detto tutto quello che doveva dire veramente; e questo è il vantaggio che Munch ha su generazioni di pittori, ha l' abilità unica di mostrarci cosa ha provato e cosa lo tormentava, facendo sembrare tutto il resto senza importanza."Il quadro presentato, il più celebre di Munch ed uno dei più drammatici di tutta l'arte moderna, di chiara lettura figurativa seppure assolutamente antinaturalistico, si presta ad una interpretazione psicologica che coincide con il contenuto rappresentato, un uomo fisicamente stravolto nelle sembianze da un terrore cieco che lo sconvolge interiormente, ed esprime, attraverso chiari riferimenti simbolici, la solitudine individuale (la figura isolata in primo piano), la difficoltà di vivere e la paura del futuro (il ponte da attraversare), la vanità e la superficialità dei rapporti umani (le due figure sullo sfondo, amici incuranti che continuano a camminare), dilatando l'esperienza individuale fino a compenetrarla nel dramma collettivo dell'umanità e cosmico della natura. Con quel grido Munch vuol dare voce alla disperazione del suo animo e del suo tempo, raffigurando con gelida spietatezza la condizione esistenziale del '900 in uno stile pittorico crudo e inquietante. La rappresentazione pone in primo piano l’uomo che urla, l'artista stesso, un corpo lontano da ogni naturalismo, con la testa completamente calva come un teschio, gli occhi-orbite dallo sguardo allucinato e terrorizzato, il naso appena accennato nelle narici, la cavità della bocca aperta, vero centro compositivo dell'opera, dalla quale si dipartono le onde sonore del grido, una serie di pennellate sinuose che innestano in tutto il quadro un movimento concentrico, come cerchi nell'acqua, che contagia la natura circostante, il paesaggio, il cielo, trascinandoli in un gorgo di irresistibile potenza dove tutto si annichilisce. La spinta dinamica del movimento ad onda domina l'insieme, incombendo sulla figura, sulla natura, definendo con tratti concitati la tipica deformazione espressionista che, premendo sulla forma, vuol farne sgorgare e liberare l'angoscia interiore, fecendola esplodere con un grido liberatorio. La figura in primo piano è tagliata in diagonale dalla linea del parapetto del ponte, di scorcio sulla sinistra, sul quale si allontanano le figure di sfondo, mentre sulla destra è raffigurato un paesaggio irreale e desolato, un gorgo d'acqua sopra il quale un cielo innaturalmente striato di rosso riprende lo stesso andamento ondulato. In antitesi con la contemporanea corrente impressionista, di lirico naturalismo e gioioso cromatismo, l'opera di Munch, al contrario, non si proietta verso il mondo esterno, verso la natura, ma si rivolge all'inconscio, ripiegandosi su un'interiorità della quale scopre tutta la incontrollabile violenza emotiva. Nella rappresentazione che Munch fa della scena non c’è alcun elemento che induca a credere alla funzione liberatoria e consolatoria dell'urlo, che resta solo un grido muto, inavvertito dagli altri, dolore pietrificato che vorrebbe uscire dal profondo dell'animo, senza mai riuscirci. I temi dominanti, il dolore, la sofferenza di vivere, l'angoscia di guardarsi dentro, la disperazione dell'uomo e della natura, sono aspetti che definiranno da lì a poco la poetica dell'Espressionismo tedesco ed austriaco ed anticipano anche ciò che essi mutueranno dal Simbolismo. Infatti Munch, che con questo quadro ottenne subito uno straordinario successo di pubblico, consacrando Munch vero fondatore di tutte le correnti di ispirazione espressionista che, a partire dalle avanguardie storiche di inizio secolo, hanno attraversato l'arte moderna fino ai nostri giorni. Il grido è l'urlo originario, primordiale, antico come l'uomo, che esprime un complesso inestricabile di sentimenti, di paure, o, meglio, di smarrimento, di angoscia. E' angoscia esistenziale, paragonabile solo alla vertigine che si prova guardando dall'alto nella profondità, simile a quella dell'uomo che guarda non fuori, ma nell'abisso di se stesso. Il dramma, seppure indicato dal titolo, non si esaurisce in esso. Nasce piuttosto dalla prospettiva, tesa e obliqua, che dà al ponte una lunghezza allucinante; nasce dagli urti cromatici; nasce dall'ondeggiare delle linee curve che, partendo dalla forma della testa e dalla posizione di mani e braccia dell'uomo, si propagano intorno, come ondate, all'acqua, alla terra, al cielo, con andamenti non concentrici (e quindi coordinati e razionali), ma eccentrici, in contrapposizione di concavità e convessità, quasi un'amplificazione e rifrazione pluridirezionale sonora dell'urto, così che questo, superando la dimensione del singolo individuo, diventa grido universale:"ho sentito questo grande grido venire da tutta la natura" dice Munch. Munch realizzò più versioni di quest’opera, anche in litografia. La figura in primo piano è formata sul modello di un ectoplasma, l’apparizione fantasmatica che, a sentire gli spiritisti, si forma durante le sedute. Il corpo è definito da curve che si stagliano contro le rette del ponte e, nella testa chiara, contro il paesaggio cupo. È un corpo "mentale", ondulato e fluttuante nell’aria, di identità sessuale vaga, proprio come appare la figura nel quadro. Le braccia raccolte, gli avambracci sollevati, la mani intorno al volto ridotto a un teschio scarnito con i buchi chiari o scuri di occhi, narici e cavità orale ribadiscono il carattere angoscioso della persona. Tutta la figura è mossa dal basso e dalle mani verso la bocca da cui esce il grido, verso l’orrore espresso dagli occhi spalancati. Nella zona di questi colori il movimento delle linee curve ha l’andamento di una tempesta marina, di un enorme maroso incavato a sinistra dello specchio d’acqua, che si alza, si rovescia e si abbatte sulla destra con la forza di un grido.
Di quest' opera Munch disse :"Solo un folle poteva dipingerlo"Al museo di Oslo dove era esposto, hanno rubato "il grido" di Munch (1863-1944), l'opera più famosa del pittore norvegese che, con la preveggenza di cui godono i folli, di cui qualche dio agita la mente, aveva anticipato in quel grido tutta l'angoscia del Novecento, un secolo che ha raggiunto una distruttività che, nelle sue proporzioni, nessun altro secolo ha mai conosciuto. Il grido" di Munch non è solo profetico del terrore del secolo scorso, quando Dio era già scomparso dalla scena come annunciato da Nietzsche, ma riprende l'atto di nascita della comunità umana, che non sorge intorno al fuoco, divenuto poi focolare domestico come piace all'immaginazione psicoanalitica, ma intorno al grido che aduna gli uomini, atterriti da tutto ciò che è imprevedibile. Grido di dolore, grido di terrore, grido di morte.
Pittore ed incisore norvegese nato nel 1863 a Löyten (una località a nord di Oslo) da una famiglia che annoverava alcuni significativi esponenti della cultura norvegese, Edvard Munch trascorse un'infanzia contrassegnata da una serie di vicende dolorose (tra le quali la malattia e la morte della madre e successivamente della sorella) che certamente segnarono la sua già complessa personalità. Frequentò la Scuola d'Arti e Mestieri di Oslo, dove studiò con M.C.Krohg. Nel 1885 compì un primo soggiorno a Parigi, dove ritornò nel 1889 (scoprendovi Gauguin, ma anche i pittori Nabis, poi Seurat e Van Gogh) e nel 1896. Il periodo più importante dell'attività di Munch è compreso nel decennio 1892-1902, nel corso del quale l'artista definì e rivelò, attraverso una serie di capolavori, la sua ricerca poetica e le qualità del suo linguaggio pittorico, che affonda le radici nel clima secessionistico del tempo e si arricchisce degli apporti del simbolismo in un'interpretazione di intensa drammaticità, secondo i modi che divennero propri dell'espressionismo tedesco. L'amore, la morte e più tardi la vita sono i temi pressanti di tutta la sua pittura. Nel 1895 iniziò l'attività grafica conclusa nel 1926, contrassegnata da innovazioni tecniche di assoluta importanza a cui corrispondono sorprendenti metamorfosi di contenuto. Dopo il soggiorno a Berlino (dove fu soggetto ad una grave depressione nervosa ) tornò in Francia dove fece scuola la sua innovativa tecnica di incisione del legno (1901 - 1902). Nel 1911 si stabilì definitivamente in Norvegia dove morì nel 1944.
L'arte di Munch
Munch si spostò frequentemente da Oslo a Parigi e a Berlino, essendo la sua sensibilità e il suo gusto non limitati alle esperienze nazionali. Di questo suo contatto con le esperienze degli artisti europei a lui contemporanei esistono diverse testimonianze riscontrabili nelle sue opere. Nei dipinti di Munch i segni offrono descrizioni esatte, drammaticamente crude, della realtà. Inoltre, il dramma psichico che caratterizza i suoi personaggi non è solo dramma individuale, ma è anche l'incarnazione di un «sentire» cosmico del dolore. Ossessionato dalle problematiche della vita e della morte, influenzato (non è un mistero e lui stesso non lo negava) dal filosofo Nietzche e dallo scrittore Strindberg, Munch è autore di livida forza espressiva, che trova nella plastica e drammatica evidenza di un cromatismo quanto mai intenso e sgargiante il miglior veicolo per affermare la sua visione sostanzialmente pessimistica della società e del mondo a lui contemporanei.
"Il vuoto può entrare nella tua vita facendoti sentire un alieno tra la gente, in cerca di uno scopo.
E’ una realtà egoista, fragile, possessiva, padrona e schiava.
Stai lì, nell'attesa di un qualcosa che possa riempirti le membra stanche, ti aggiri per casa, ti affacci alla finestra, il respiro si fa affannoso e non ti solleva da terra. Ti senti vulnerabile come ciuffi di nuvole, con la voglia di disperderti nel foglio azzurro del cielo senza lasciarne nemmeno la scia.
Una catena di sentimenti opachi ti stringe nella sua morsa e ne rimani avvinta fino ad esaurire tutte le tue risorse.
La disperazione, la tristezza, la rabbia, la frustrazione, diventano ombre di una ragione intrappolata nella paura.
Cadi nel silenzio della notte dell’anima e ti aggrappi, nel buio, alla presenza di qualcosa che prenda corpo e che ti tenga a galla ma ogni tentativo muore in quel caos interiore. Tutto diventa scollato dentro di te e si perde naufrago in quel deserto come granelli di polvere nel vento. L’anima sembra non trovare più nessun collegamento con il cuore e appare debole e malata, senza sapere dove attingere l’acqua per la sua crescita.
Il vuoto è vecchio come il mondo e si ripete nella sua ridondanza, ogni giorno, racchiuso tra le virgolette dell’infinito; è un muro di pietra: tutto ciò che vi sbatte prova un dolore eterno; è una voce che ti urla dentro, ti tappa le orecchie per non farti sentire e, quando sei già diventato sordo, le sue grida le vedi solo tu.
Giace in vari strati di profondità e tu puoi riempirlo facilmente solo se ti scopri in superficie. Se il vuoto si è abbassato ad un livello medio, i tuoi pensieri vanno rivestiti di maggior sostanza per riallacciarti alla realtà di sempre ma se ti ritrovi confinato nel suo strato più basso, dove non c’è fondo, sei nella voragine più nera dell’anima. E ne hai messo di tempo per capirlo! Lì dentro, hai tutto il tempo che vuoi per riflettere su te stesso e, da gran gentiluomo, ti lascia muovere senza meta, né regole, come un aquilone che fatica a decollare in alto.
Il vuoto ti mette il cuore in subbuglio come bollicine d’acqua sbattuta.
Nel silenzio del deserto, la prima realtà che incontra il tuo io, è un sovraccarico di distrazioni, di fretta, d'ansie, d’incoerenza, d’infedeltà continue, d’impulsività e d’attesa poi di rancori e di rimpianti perché sai, con tutto te stesso, che quello non sei tu, né ciò che di più al mondo non vorresti essere: il vuoto, ti ruba la tua vera identità in quel disordine interiore.
E piangi, quanto piangi nei cunicoli scuri delle sue radici profonde!
Nei cuori persi nel vuoto non si fa giorno mai!
Unico strato vincente in quel fondo scuro, sembra quello fondato sulle giustificazioni subdole che dai a te stesso per salire alla luce. Il vuoto è più grande di te e t'immerge in una profonda avventura da cui risali solo se sei capace di riempire il suo spazio ma nessuna tristezza deve adombrare le ragioni dell’amore così come la sofferenza non impedirà mai certe gioie di fondo e, la stessa, dovrebbe portare un solo nome: condivisione.
Non ci sono giustificazioni di sorta nel non amore eppure alcuni sono convinti che il mondo debba girare intorno a loro e che tutto debba essere al loro servizio. Il vuoto può distruggere la tua condivisione ma ha bisogno anche di quella perché tu possa salvarti."
tratto dal romanzo " Un vuoto da decidere" Scritto da Sina Mazzei
Probabilmente non esiste quadro più distante dal cattolicesimo che questo. Per il cattolicesimo la natura creata da Dio va amata, per Munch la natura e l'immensità del mondo creano solo angoscia..o meglio un sentimento sublime di terrore e di fascino insieme. L'uomo si ritrova solo e urla. Urla e non si rassegna. Urla forse perchè vorrebbe farsi lui stesso creatore di un mondo migliore. Eppure urla fors'anche perchè tutta quella bellezza lo spaventa, lo fa vittima. Quell'immenso lo fa sentire altrettanto immensamente piccolo. E scopre tutto il suo vuoto abissale. Si rende conto di non essere Dio. O forse che Dio stesso non può esistere: se l'uomo è fatto a sua immagine e somiglianza, non dovrebbe sentirsi cosi impotente e piccolo. Dovrebbe dominare la natura e non esserne vinto.





by mondoglitter.it

Che pesce sei?

Un'insegnante spiegando alla classe che in spagnolo, contrariamente all'inglese, i nomi possono essere sia maschili che femminili. "Uno studente chiese: "Di che genere è la parola computer?" Anziché rispondere, l'insegnante divide la classe in due gruppi, maschi e femmine, e gli chiese di decidere tra loro se computer dovesse essere maschile o femminile.A ciascun gruppo chiese inoltre di motivare la scelta con 4 ragioni.Il gruppo degli uomini decise che "computer" dovesse essere decisamente femminile"la computadora"perchè:1.Nessuno tranne il loro creatore capisce la loro logicainterna.2.Il linguaggio che usano per comunicare tra computer èincomprensibile.3.Anche il più piccolo errore viene archiviato nella memoria a lungotermine per possibili recuperi futuri.4.Non appena decidi di comprarne uno, ti ritrovi a spendere metà del tuo salario in accessori.Il gruppo delle donne,invece, concluse che i computer dovessero essere maschili (el computador)perchè:1.Per farci qualunque cosa, bisogna accenderli.2.Hanno un sacco di dati ma non riescono a pensare da soli.3.Si suppone che ti debbano aiutare a risolvere i problemi, ma perla metà delle volte,il problema sono LORO;4.Non appena ne compri uno, ti rendi conto che se avessi aspettatoqualche tempo,avresti potuto avere un modello migliore.Le donne vinsero.