Blog informativo sulla P4C

( philosophy for children)

di Lipman

Quando la filosofia dipinge il suo grigio su grigio, allora una figura della vita è invecchiata, e con grigio su grigio essa non si lascia ringiovanire, ma soltanto conoscere; la nottola di Minerva inizia il suo volo soltanto sul far del crepuscolo.


La parola "filosofia" ha come nella sua radice il significato "far crescere". Infatti, c'è solo una cosa che sa stupire e conquistare il nostro cuore: la parola di chi non si limita a inanellare frasi sensate e ben tornite, ma di chi ci porta più in alto o più in profondità.

Che cos'è la filosofia?

“La filosofia è la palingenesi obliterante dell'io subcosciente che si infutura nell'archetipo dell'antropomorfismo universale. “(Ignoto)

Perché la filosofia spiegata ai ragazzi?

I bambini imparano a conoscere e a gestire i propri ed altrui processi emozionali, affettivi e volitivi: imparano a conoscere se stessi e a relazionarsi con gli altri. Una scuola che intende fornire esperienze concrete e apprendimenti significativi, dove si vive in un clima carico di curiosità, affettività, giocosità e comunicazione, non può prescindere dal garantire una relazione umana significativa fra e con gli adulti di riferimento. Questa Scuola ad alto contenuto educativo, non può cadere nel terribile errore di preconizzare gli apprendimenti formali, errore spesso commesso dagli insegnanti che sono più attenti a formare un “bambino-campione”, piuttosto che un bambino sicuro e forte nell'affrontare la vita, o ancora un bambino che abbia acquisito la stima di sé, la fiducia nelle proprie capacità e la motivazione al passaggio dalla curiosità, caratterizzante la Scuola dell'Infanzia, alla ricerca. L'insegnante deve poter provare un “sentimento” per l'infanzia inteso come “sentire”, percepire e prendere consapevolezza dei bisogni reali, affettivi ed educativi propri del bambino che sono altro rispetto ai bisogni degli adulti. Il ruolo dei genitori, degli insegnanti è infatti quello di educare tutti e ciascuno alla consapevolezza di ciò che il bambino “sente” emotivamente e affettivamente, perché è proprio il passaggio dal sentire all'agire che consentirà al futuro uomo di compiere scelte autonome. Un compito importante dell'insegnante è quello di mediare i modi e i tempi di un dialogo strutturato su un piano paritario, in modo tale da consentire ad ogni interlocutore di far emergere il proprio pensiero e di metterlo in relazione con quello degli altri. E' una sfida, da parte dell'insegnate, a livello culturale, sociologica e civica ma che deve coinvolgere anche i più piccoli per dotarli di una propria capacità critica, che permetta loro di ragionare, di riflettere sulla realtà e di compiere in futuro scelte consapevoli Se la filosofia è "presa sul serio", se è misurata con i problemi reali, è davvero uno strumento di formazione della persona e di indirizzo della vita. La filosofia come felicità presente nell'attività del pensiero.

Incontrarsi è una grande avventura

“Non possiamo stare
e vivere da soli,
se così è,
la vita diventa
solitudine monotona.
Abbiamo bisogno dell’altro
per condividere sguardi
di albe e tramonti,
momenti di gioia e dolore.
Abbiamo bisogno dell’altro
che ci aiuta a vedere
e scoprire le cose che da soli
mai raggiungeremo.

Beati quelli che sono capaci
di correre il rischio dell’incontro,
permeandolo di affetto e passioni
che ci fanno sentire più persone
poiché così vivendo
anche gli scontri
saranno mezzi
di un vero incontro.”
(Testo di sr. Soeli Diogo).




Questo romanzo è rivolto, con la più grande speranza e fiducia, a tutte le persone di questa società e soprattutto a quei giovani che si muovono oggi, coi loro passi, senza esserne pienamente consapevoli, verso la scoperta della grande stanza di questo mondo poliedrico e complesso, dalle mille pareti ammaliatrici. Passi che, a dosi esagerate della conquista di una felicità che riempia la stanza del loro cuore, complementare a quella del mondo, lasciano dietro sé molte tracce superficiali che si spazzano via anche con il più debole vento della loro esistenza per poi trascinarli nel giogo del “vuoto”. Che questo romanzo “Un vuoto da decidere” sia loro di aiuto per guardare in faccia, riconoscere, combattere e vincere, con le sole armi dell’amore vero per se stessi e per il mondo, questa strana “malattia” dell’anima che colpisce chi non ha difese e che porta alla conquista di una libertà infedele e subdola.

Se la metto in pratica mi fa vivere tutta un'altra vita, straordinariamente più ricca di quella che avrei ideato fidandomi solo di me.

Solleviamoci, è ora

Noi siamo quelli
che se ne vanno
pieni di vento
e di sole
in deserti
affollati
di illusioni
e non tornano più
abbagliati
da spaccati di vita.

Siamo riflessi
di affetti
profondi.
Pensieri
di fresca rugiada
posata sulla notte
che non conosce
nuvole.

Siamo i sospesi
tra sogno e realtà,
quelli sul sottile confine
tracciato
dai meandri
dei desideri.

Siamo splendide bugie
di una terra
che fatica
ad alzarsi
sui marciapiedi
della vita.

Siamo polvere
di un tempo
inesorabile
che ci riporta
tra le caverne opache
dei ricordi.

Siamo l’urlo
di amici perduti
non ancora tornati,
che raccoglie
sogni lanciati
su nuvole rosa
gonfie di cuore
nel cielo sospeso
della gioventù.

Siamo parole
mai dette
intrappolate
tra i rami
scheggiati
di un inverno
che fatica
nel risveglio.

Siamo vita
che scoppia
nei focolai spenti
accesi dal giorno che nasce
a dispetto di tutto.

Preghiere
Strappate ai silenzi
concessi da un Dio
che non ama
piangersi addosso.

Siamo
l’andata e il ritorno
di noi stessi.

Solleviamoci.
E’ ora.

PAESE MIO

Paese mio
cinto a primavera
di riccioluti gorgheggi
affaccendati
come comari
nel via vai del giorno
ti vai combinando
tra nuvole ariose
all’orizzonte
e sogni fermi
dietro vetri antichi.

Tu non conosci gli anni.

Il tuo grembo
avrà sempre un vecchio
davanti ai tuoi tramonti
aggrappato
ai sapori di campagna
mentre torna stanco
con le zolle in mano
cantando
la fatica della terra.

E non conosci spazi.

Sei tutto lì
che vivi di germogli
seminati
nei cuori della gente
che s’adatta
all’ombra
dell’inverno
mentre fuori
è estate.

Per questo
non ti mancano
i sorrisi
strappati ai vicoli
intrecciati e bui
come strette di mano
nel bisogno
tra calde mura
di camini accesi.


Tra gli alberi d’ulivo
bagnati di sole
che lasciano un’impronta
tra le rughe
dei ricordi

che strada voltando
riporta
inesorabilmente
a te.



mostra di poesie

mostra di poesie
Solleviamoci, è ora


giovedì 16 dicembre 2010

Il mito di Cura... ri-raccontato da Antonella Pedicelli


Il mito di Cura

Il mito narra che, agli albori del mondo, la Dea Cura, mentre
passeggiava pensierosa per lande ancora disabitate, arrivata sulla
riva di un fiume, vide che i suoi piedi lasciavano un’impronta
sull’argilla. Pensò allora di dare una forma a quella argilla. Cura
aveva delle mani d'oro, e le figure le vennero proprio bene, per cui
volle fare qualcosa per le sue creature: così si rivolse a Giove,
padre di tutti gli dei, perché vi infondesse lo spirito. Giove
accondiscese volentieri alla preghiera di Cura, che tante volte
l'aveva assistito e massaggiato con preziosi unguenti quando era
stanco, era stata ad ascoltarlo quando era preoccupato e gli aveva
dato saggi consigli sulla conduzione dell'universo.

Subito dopo però Giove e Cura cominciarono a discutere animatamente,
perché il re dell’olimpo pretendeva, in cambio del suo dono, il
diritto di dare un nome alle creature. La discussione fu udita dalla
Dea Terra, che a sua volta iniziò ad arrogare a sé quel diritto, in
quanto lei aveva fornito la materia di cui erano composte le creature.
Intervenne anche il dio Tempo che, pretendendo di ergersi a giudice,
voleva imporre dei limiti temporali. Tutti alzarono la voce e
cominciarono a gridare e a minacciare di distruggere le creature di
Cura, piuttosto di lasciarle agli altri.

Cura aveva ormai concepito un grande amore per le sue creature per
cui, pur di salvarle, accettò che venisse chiamato a giudice Saturno,
per dirimere la contesa. Questi, dopo lunga meditazione, così
sentenziò: "Tu, Giove, che hai dato lo spirito, al momento della morte
riceverai lo spirito. Tu, Terra, che hai dato il corpo, riceverai il
corpo. Tu Cura ,che per prima hai creato e fatto vivere il corpo, lo
“possiederai” finché vivrà (Cura enim quia prima fixit, teneat
quamdiu vixerit) e si chiamerà Homo perché è stato tratto dall’ humus
cioè dalla Terra”.

Purtroppo però Cura dovette ben presto rendersi conto che quelle
creature non solo erano mortali, ma anche estremamente fragili:
venivano al mondo debolissime, e incapaci di provvedere a se stesse,
morivano se non venivano continuamente nutrite, si ammalavano
facilmente ed erano esposte a mille altri pericoli. Gli altri dei
invece, non contenti di aver bisticciato il giorno natale degli uomini
riguardo al nome da dare, si vantavano di avere in serbo per loro
grandi progetti. La Terra li destinava al lavoro: "I campi, il cielo e
il mare sono una loro proprietà: bisognerà asservirli, sfruttali e
nulla dovrà fermarli”. Giove, sobillato da Marte suo figlio,
prospettava un futuro di conquiste: "Onore e vanto della sua stirpe
sarà il potere: dominerà, sconfiggerà, si farà temere ed obbedire".
Per Cura invece cominciarono tutti gli affanni, per mantenere in vita
la sue creature, e perse il sonno, e non riuscì più a pensare ad altro
arrabbiandosi e cercando di porre rimedio alle follie degli altri
dei. E dove questi hanno voluto dividere, ha intrecciato relazioni;
dove hanno creato baratri, ha costruito ponti; dove hanno causato
ferite, ha curato; e per ogni morte ha procurato che nascesse almeno
una nuova vita. E ogni volta che Cura provava a ricordare a quei
signori che, d’accordo con Tempo, le avevano lasciato signoria su Homo
fintanto che era in vita, essi si arrabbiavano, perché non volevano
rinunciare ai loro progetti.

Fu così che non potendo disfare ciò che era stato fatto, si
coalizzarono e magnanimamente sentenziarono: "Tu Cura, per le tue
faccenduole quotidiane, non hai bisogno di tutto il genere umano; te
ne basta una metà, mentre noi con l'altra metà potremo ben realizzare
le nostre eccelse imprese". A Cura rimasero pertanto quasi
esclusivamente le femmine. Le altre divinità inoltre, per sminuire il
lavoro di Cura ed esaltare il proprio, sparsero la voce che Cura era
una dea inferiore, capace solo di occuparsi di inabili, invalidi,
pannolini sporchi e pappe.

Cura, testarda, continuò a intrecciare amore, dialogo e solidarietà,
piangendo per tutto il dolore che uomini e dei andavano seminando per
il mondo, stando vicina alle vittime di tutte le guerre, e
rifiutandosi di credere che la ragione fosse sempre dalla parte del
più forte. Nel frattempo però Homo si inorgoglì per la propria grandezza, forza e intelligenza. Le sue pretese divennero infinite:, ardì sfidare il
cielo, la natura e i propri limiti, coprì di sangue la Terra e
ingiuriò Giove e ogni altra divinità. I fratelli uccisero i fratelli,
i padri lasciarono morire i figli di stenti, di fame, e nelle guerre
e, quanto alle donne, a loro toccò il trattamento più selvaggio.
Delusi e feriti, gli dei si volsero allora a Cura, e piangendo la
supplicarono di intervenire e di accentuare il suo impegno e i suoi
sforzi riconoscendo pubblicamente la nobiltà della sua opera.

Come molti altri racconti mitologici, le fiabe hanno la capacità di
mediare delle profonde verità e, giungendo direttamente al cuore,
fanno capire che, fin dai tempi più antichi, Cura non doveva solo
provvedere a curare ma anche a “prender­si cura” di questo Homo in
quanto lo “possiederà”, cioè lo terrà come cosa sua, finché vivrà.

Antonella Pedicelli

martedì 27 luglio 2010

L'evangelizzazione nell'era digitale: incontrare Dio nel mondo digitale


La Captologia è una recente branchia d’indagine sul rapporto uomo-computer, in particolare, secondo la definizione data dal suo fondatore, il dott. B.J.Fogg, è: “lo studio dei computer come tecnologia persuasiva progettata per modificare gli atteggiamenti o i comportamenti delle persone: l’esperienza diretta fa la differenza..Quando i computer,vengono usati come mezzi di comunicazione persuasivi, in modo particolare attraverso la simulazione, come i videogiochi,come la realtà virtuale, le persone reagiscono come se fossero esperienze vere. Ed è proprio in virtù di questo meccanismo che si può innescare la dinamica dell’influenza con la quale operare.”   “Essere, spazio e luogo” (Being, Space and Place), afferma anche Il Prof James Paul Gee, dell’Università del Wisconsin: “il modo naturale di apprendimento per l’uomo è facendo, non ripetendo nozioni apprese in astratto” “Qual’ è il vantaggio che i videogames hanno nell’educazione rispetto ai libri, films, o alle più tradizionali lezioni in classe? Così risponde anche Suzanne Seggerman, ex giornalista del programma televisivo “frontline” e fondatrice di Games for Change “Possono comunicare quello che comunicano i film, ma in un modo più approfondito perché permettono di vivere l’esperienza in prima persona”. In quest’ ottica,  si può esplorare un nuovo percorso: l’uso delle nuove tecnologie per persuadere, per convincere ( non per manipolare ) le persone a cambiare atteggiamenti e modi di vivere.  Questo non è estraneo all’evangelizzazione, citando il santo Padre Benedetto XVI : “ All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva” .  Dare alla vita un nuovo orizzonte implica un “cambio”,  una conversione degli atteggiamenti e dei comportamenti. La Chiesa è chiamata, a evangelizzare il Continente digitale incarnando il Vangelo nella nuova cultura digitale, “Anche un osservatore poco attento può facilmente costatare che nel nostro tempo, grazie proprio alle più moderne tecnologie, è in atto una vera e propria rivoluzione nell’ambito delle comunicazioni sociali, di cui la Chiesa va prendendo sempre più responsabile consapevolezza. Cristo ha comandato agli apostoli e ai loro successori di ammaestrare "tutti i popoli" ad essere "luce del mondo" ,di proclamare il Vangelo senza confini di tempo e di luogo. Come Cristo stesso, nella sua vita terrena, ci ha dato la dimostrazione di essere il perfetto "Comunicatore", e come gli apostoli hanno usato le tecniche di comunicazione che avevano a disposizione, così anche oggi l'azione pastorale richiede che si sappiano utilizzare le possibilità e gli strumenti più recenti…L’impegno nei mass media, non ha solo lo scopo di diffondere il messaggio cristiano e il magistero della Chiesa, ma occorre integrare il messaggio stesso in questa ‘nuova cultura’ creata dalla comunicazione moderna. Tutto questo costituisce una sfida per la Chiesa chiamata ad annunciare il Vangelo agli uomini del terzo millennio mantenendone inalterato il contenuto, ma rendendolo comprensibile grazie anche a strumenti e modalità consoni alla mentalità e alle culture di oggi.”Insomma la Chiesa invita a non avere paura delle nuove tecnologie, ma anzi a conoscerle e a usarle per annunciare il Vangelo eterno della salvezza per mezzo di Cristo!E allora perché non pensare di creare la possibilità, specialmente per le nuove generazioni, i cosiddetti “digital native" (d.n.), di un annuncio fatto “su misura” per essi? “Perché non andare oltre il vecchio annuncio fatto di incontri di catechesi basati su letture, audiovisivi e film per dare spazio ai nuovi media?-afferma Don Bruno Oliviero- Che cosa impedisce alla Chiesa di fare uso della tecnologia interattiva dei Videogame per, ad esempio, permettere ai d.n. l’incontro con i grandi Testimoni della fede? Far viaggiare i ragazzi nel tempo e nello spazio e permettere loro di incontrare Abramo, facendo loro sperimentare, “in qualche modo”,  il “rischio” della fede? E che dire della grande epopea dell’Esodo? In un tempo che si dichiara apertamente “nomade”, perché non far rivivere ai ragazzi l’incertezza, l’angoscia, la precarietà che hanno vissuto le tribù d’Israele, dall’uscita dall’Egitto fino all’entrata nella terra promessa? In questo modo non sarebbe più facile per essi “percepire” che per sopravvivere nel deserto e arrivare alla terra promessa e, quindi,  alla vera libertà,  non basta la solidarietà della tribù, ma c’è bisogno della presenza del Dio dei padri? E ancora:  la Resurrezione di Gesù, definita dal santo Padre Benedetto XVI la “più grande mutazione mai accaduta, il salto decisivo verso una dimensione di vita profondamente nuova,..”…: perché non ricreare l’ambiente del tempo di Gesù e permettere ai d.n. di “sperimentare”, nel mondo digitale, l’incontro con il Leader incontrastato della Storia umana, l’Unico che ha sconfitto la morte? Perché non dare ai d.n. la possibilità di esplorare le conseguenze dei vari modi di relazionarsi con Il Cristo, nel mondo digitale, fino a scoprire, con la luce dello Spirito Santo, che la risposta vincente alla sfida della “vita reale” consiste nell’accettazione incondizionata della sua leadership? “.



Volersi bene a tutti i costi o imparare i conflitti?

Volersi bene a tutti i costi o imparare i conflitti?

In questi giorni si fa un gran parlare degli episodi di violenza da parte di adolescenti ai danni di coetanei. Atteggiamenti istintivi dettati da una scarsa capacità di riconoscere i propri limiti. A scuola si adotta spesso un atteggiamento incredibilmente soft nei cui confronti si riservano parole fin troppo comprensive: «Si tratta di ragazzi vivaci che vanno recuperati...». Con qualche ceffone? Guai a usare le mani: queste possono alzarle solo gli studenti sui professori. Nella pedagogia tradizionale il conflitto è incluso nelle esperienze da evitare, come nel caso dei litigi fra i bambini dove la maestra è sempre preoccupata, anche in funzione dei genitori, di impedire che i bambini bisticcino o non vadano in crisi in modo da creare una sorta di bonifica interna che è a totale carico distruttivo. Viceversa esiste un filone pedagogico che vede nell'educazione una forma di cambiamento, una possibilità di trasformazione sia individuale che sociale, una rottura degli schemi tradizionali, e una individuazione di nuovi percorsi con valore di cambiamento personale e collettivo.La pace porta alla reimportazione del conflitto” cioè il conflitto va reimpostato internamente, questa è la pace. La pace è conseguenza del conflitto, non dell’assenza dei conflitti, l’assenza dei conflitti è pericolosa”.( Franco Fornari) È molto raro che si pensi all'educazione come a qualcosa che cambi la situazione. L'educazione alla pace ha dunque spesso e volentieri un significato di tranquillizzazione, ed è un grosso e pericoloso equivoco. La nostra percezione comune è che il conflitto sia guerra, ma è comunque un'esperienza quotidiana. La vita è una serie di conflitti che decidiamo di gestire in un modo oppure nell'altro. Il fenomeno educativo di oggi rivelante è una maternalizzazione talmente accentuata che il conflitto genera una vera e propria sensazione di minaccia, dove le regole non vengono messe in atto perché creano conflitti e quindi bisogna stare dentro una simbiosi assoluta in cui il volersi bene ha sostituito il concetto di benessere. Da una educazione autoritaria, fondata quasi esclusivamente sulle regole, sui doveri, su di un codice prettamente paterno, si è passati ad un’educazione molto protettiva e accondiscendente, tipica del codice materno. Il Novecento, per evitare ogni frustrazione, ha visto nascere un nuovo modo di educare sulla coccola eccessiva, foriera di noie e vuotaggine. Naturalmente questa prevalenza del codice materno sposta l’attenzione sulla nascita di ansie legate alla paura che i bambini stiano male e tende maggiormente a giustificare, a sostituirsi in qualche modo al bambino. Il conflitto può spaventare, anche perché spesso riporta alla vicenda personale dell’educatore, alla sua storia particolare, ai suoi vissuti, alle sue emozioni. A scuola,  il conflitto è vissuto come scontro aperto, come momento di rottura e confusione, logica dura da smantellare. Si sta bene quando i bambini si vogliono bene, quando tutto fluisce in armonia. In nome dell’armonia si tenta di allontanare il più possibile il conflitto colto come problema e il desiderio di riportare subito la calma ha la prevalenza su tutto. Ecco allora la tendenza a sfuggire dal conflitto, a evitarlo in tutti i modi. L'educazione tradizionale ha sempre visto il conflitto come opposizione all'autorità. Anche all'interno dei modelli educativi più aperti il conflitto ha spesso significato l'attivazione di ansie di separazione non sempre tollerabili dall'educatore. Certo, il conflitto è un contrasto. Negare il conflitto, però, è negare uno spazio di creatività in cui attivare competenze legate alla comunicazione e alla negoziazione. Il conflitto è una possibilità, e può essere positivo o negativo a seconda di come lo usiamo. Bisogna vedere l'arte del conflitto come l'arte dell'educazione alla pace, rovesciando i tradizionali schemi che vedono invece l'educazione alla pace come l'arte dell'armonizzazione, della tranquillizzazione e dell'evitamento del conflitto.È questa la la grande sfida: non si tratta di educare a pensare come vogliamo noi, ma riuscire a fare in modo che noi stessi e le nuove generazioni ci abituiamo a pensare, a essere consapevoli di quello che stiamo facendo, e quindi pronti ad attivare risposte creative. L'obbedienza non è sempre una virtù: lo ha detto don Milani. Trovare la giusta distanza e il giusto equilibrio vuol dire far sentire il proprio affetto ai figli o agli alunni, ma senza cadere nell'intrusione, di cui parla spesso e volentieri Winnicot. Vuol dire comunicare, ma non giudicare, può voler dire collaborare, ma non entrare in collusione. I conflitti nei bambini sono per loro una forma di apprendimento sociale, può rappresentare un momento di riconoscimento della mondo circostante che pone dei vincoli e dei limiti al proprio mondo egocentrico e autoreferenziale. I conflitti non sempre sono semplici, necessitano di molto tempo, per cui non dobbiamo pensare immediatamente alla soluzione. La scuola è quel luogo dove si possono maggiormente osservare i conflitti poiché sia il gruppo che le regole vengono composte indipendentemente dalla scelta del bambino. Ci sono una serie di conflitti che sono assolutamente naturali, sono ovvi, né più né meno come crescere e respirare e potrebbero nascere da svariate cause tra cui l’iperprotezionismo o la troppa indulgenza da parte dei genitori in nome dell’amore per i loro figli. I bambini hanno il diritto di trasformare il conflitto in una vera occasione di crescita e apprendimento per imparare quell’arte della convivenza che è una vera e propria alfabetizzazione primaria. Il comportamento dell’adulto, educatore o genitore, è spesso di tipo giudicante. I bambini hanno il diritto di poter imparare a gestire i propri conflitti, senza delegare l’adulto a farlo per loro intervenendo con considerazioni spesso gratuite e a sproposito. L’educatore dovrebbe essere orientato ad una decantazione narrativa con “dammi la tua versione”. L’adulto in questo caso diventa una sorta di mediatore, un facilitatore della dinamica, ma il processo viene attivato dai bambini stessi. Gli interventi “a lungo termine” si basano sull’atteggiamento autorevole dell’adulto per cercare di capire il bisogno che genera il conflitto e provare a dare risposta a quel bisogno. Aiutare i bambini a far emergere le cause del conflitto, ad esprimere quello che sentono instaurando un clima in cui la collaborazione rientri normalmente nella relazione tramite una comunicazione efficace che sostenga l’efficacia dell’intervento educativo, non tanto per scoprirne la causa quanto per correggere quei comportamenti sbagliati acquisiti in un determinato contesto culturale per imparare a divenire genitori di se stessi.


L’EROE CONTEMPORANEO CHI E'?

L’EROE CONTEMPORANEO

In una società caduta nella trappola dell’apparire scordando l’essere, nel nostro mondo occidentale, che si è spaventosamente allontanato dai valori, è difficile essere se stessi in mezzo a tanta ipocrisia, dove la mediocrità volgare pervade gli animi della gente, per cui vivere e coltivare relazioni di qualsiasi tipo diventa sempre più difficile. Siamo invisibili, abbiamo perso l’identità a favore di anonime omologazioni e subalternità sociale, sottratti emotivamente, senza il minimo ascolto, autarchici; l’instabilità diventa il tratto distintivo dell’esperienza quotidiana, la noia si è acclimatata ovunque, la crisi economica obbliga ad essenzializzarsi. In questo quadro diafano  chi sono gli eroi di oggi? Sono i calciatori, i cantanti, gli attori, le veline, i campioni dello sport in genere, nella competizione e nel denaro. Personaggi sbiaditi, che rappresentano una vita inautentica, superficiale, fatta di gioco, di svago e di divertimenti. Oggi mancano grandi figure di eroi ai nostri adolescenti. Ma siccome l’esigenza di eroismo è sempre presente, i giovani cercano gli eroi in soggetti inautentici o in certi tipi di antieroi molto negativi, marchiati da un esibizionismo isterico e da un nichilismo imperante. C’è chi ha ipotizzato che chi si droga pensa di fare qualcosa di eroico perché sfida la morte, la legge, la giustizia, i genitori e le regole. E’la solitudine profonda che alza la voce per farsi sentire, per dire che si esiste con il pericolo di annientare definitivamente se stessi. L’eroe negativo si affaccia nella vita degli adolescenti proprio ora che si dà ad intendere che gli eroi non servono. Non potendo raggiungere certi format ecco che allora l’eroe è quello dei fumetti, dei film violenti, a volte il serial killer, l’assassino e persino il suicida. Eppure dalla televisione e dai giornali abbiamo notizie di persone che lavorano, studiano, ricercano, si attivano per il benessere della società, per un nuovo millennio più in pace, in crescita spirituale, in sanità mentale alienata dal godimento ricercato a tutti i costi, a dispetto dell’amore, dei sentimenti,  e dell’amicizia oramai vissuta come complicità e convenienza. I giovani vivono in un mondo occupato dagli affari, distratti dalla quotidiana ricerca affannosa di cose materiali, riempiti di caparbietà, violenza, sopraffazione, rivalse, litigi. Gli eroi del nostro Risorgimento sono anacronistici, estranei alla vita di oggi, meno "universali". Eppure le loro gesta hanno costituito per alcune generazioni punti di riferimento e di grande valore, persone che col loro impegno e statura morale hanno anteposto le esigenze e il bene collettivo ai propri bisogni individuali, persone che hanno “cambiato” il corso della storia come Che Guevara, Madre Teresa di Calcutta, Giovanni Paolo II, Nelson Mandela, Borsellino, Falcone, Peppino Impastato,  Gesù Cristo. Ecco perché si impone, la necessità di essere eroi di virtù al posto di altri più fulgidi. Essere eroi oggi comporta un’ ottima figura di riferimento, un esempio di vita, che consenta ai giovani adolescenti di trovare quegli elementi positivi che possano costituire modelli di comportamento. Il vero eroe contemporaneo è colui che cerca di rimanere se stesso, modello di indulgenza difficile da adottare, non quelli dell’immagine mediatica. L’eroe, quindi, non deve più salvare il mondo come Superman, ma tanti esseri umani, senza mai tirarsi indietro, con spirito di sacrificio, pronti a rischiare in prima persona. Quelli di oggi non più eroi “invulnerabili”, ma “umani”, che fanno lavorare più l’intelligenza che i muscoli. Eroi si può diventare. Tutti oggi abbiamo il compito di essere eroici, ognuno nella propria unica e insostituibile maniera, in contatto con la sofferenza, la passione, le aspirazioni di chi ci ha preceduto, nell’essenza dell’essere umani. Dobbiamo imparare a vivere in comunione responsabile con gli altri. L’eroe di oggi non è più un cavaliere solitario senza macchia e senza paura ma agisce in gruppo. Il modello “Rambo” non funziona più, vince quello che protegge tutti. Nell’eroe contemporaneo c'è l'affermazione della vita, la celebrazione della capacità umana di sopravvivere, di adattamento alla natura, il dominio di sé stesso, che non perde la sua identità. L’eroe contemporaneo deve agevolare un processo di decondizionamento socioculturale con una sua dignità piena, ridurre l'abitudinarietà nell'uso delle nuove tecnologie che hanno cambiato il nostro stile di vita. E’ colui che non può più distaccarsi dal mondo in cui vive; che muove la storia, compie il viaggio, fisico o mentale per trovare il tesoro del proprio vero sé,  la conoscenza dei misteri dell’anima, per esprimere i propri insostituibili doni nel mondo, in comunione con gli altri. L’eroe di oggi non può rischiare di diventare pienamente parte di un sistema disumano, tassello  di una macchina triste della sua mancata umanità. Jung, perciò, sottolinea costantemente il pericoloso aspetto dell'eroe che può coinvolgere e possedere il soggetto oltre misura facendogli perdere di vista il significato del viaggio a favore della meta, stuzzicato dal delirio di onnipotenza nell’ambiente del suo sottosuolo, fino all’obnubilamento della coscienza, cioè eroe che privilegia l'apparire fine a se stesso come soggetto sul proscenio del gruppo e non si fa strumento al servizio della collettività. Una sorta di Don Chisciotte che per accrescere la sua fama e rendere onore al suo Paese opera con quelle gesta impossibili che sfociano nel fallimento o nella follia. Come molti politici e manager attuali. L'eroe di oggi deve fare i conti con il suo egoriferimento ed è ciò di cui deve assolutamente disfarsi se vuole proseguire il viaggio affrontando costantemente  la riconciliazione della coscienza individuale col volere universale,  mediando l’ordinario con lo straordinario. L'eroe contemporaneo, con generosi atti di coraggio, ricco di umanità e saggezza, è chi si ribella al pizzo, chi muore per le sue idee, chi non si adegua alla massa, chi muore per salvare la vita di uno sconosciuto, ogni docente che educa al pensiero consapevole, ogni genitore che si fa punto di riferimento forte dei figli, il contadino che crede nella terra. Eroi sono i vigili del fuoco che muoiono in un incendio, il prete che denuncia la corruzione, chi preferisce un lavoro onesto ma mal retribuito piuttosto che andare a rubare. Chi si rialza da solo e si rimbocca le maniche  dopo una caduta., chi sa ascoltare e sa operare in silenzio. Questo è l’eroe che non si dimentica. L'eroe di oggi che non si confronta con l’amore per l’umanità, che coltiva egoistiche aspettative rischia di diventare la celebrazione dell'ego e della sua solitudine. E finisce col morire solo con la sua vana gloria accanto.


domenica 31 gennaio 2010

La vera educazione deve essere un’educazione alla critica.


Afferma don Giussani: “La vera educazione deve essere un’educazione alla critica. Fino a dieci anni (adesso anche prima), il bambino può ripetere ancora: «L’ha detto la signora maestra, l’ha detto la mamma». Perché? Perché, per natura, chi ama il bambino mette nel suo sacco, sulle spalle, quello che di meglio ha vissuto nella vita, quello che di meglio ha scelto nella vita. Ma, ad un certo punto, la natura dà al bambino, a chi era bambino, l’istinto di prendere il sacco e di metterselo davanti agli occhi (in greco si dice pro-bállo, da cui deriva l’italiano «problema»). Deve dunque diventare problema quello che ci hanno detto! Se non diventa problema, non diventerà mai maturo e lo si abbandonerà irrazionalmente o lo si terrà irrazionalmente. Portato il sacco davanti agli occhi, ci si rovista dentro. Sempre in greco, questo «rovistarci dentro» si dice krinein, krísis, da cui deriva «critica». La critica, perciò, consiste nel rendersi ragione delle cose, non ha un senso necessariamente negativo. Dunque, il giovane rovista dentro il sacco e con questa critica paragona quel che vede dentro, cioè quel che gli ha messo sulle spalle la tradizione, con i desideri del suo cuore: il criterio ultimo del giudizio, infatti, è in noi, altrimenti siamo alienati. Ed il criterio ultimo, che è in ciascuno di noi, è identico: è esigenza di vero, di bello, di buono.”
by mondoglitter.it

Che pesce sei?

Un'insegnante spiegando alla classe che in spagnolo, contrariamente all'inglese, i nomi possono essere sia maschili che femminili. "Uno studente chiese: "Di che genere è la parola computer?" Anziché rispondere, l'insegnante divide la classe in due gruppi, maschi e femmine, e gli chiese di decidere tra loro se computer dovesse essere maschile o femminile.A ciascun gruppo chiese inoltre di motivare la scelta con 4 ragioni.Il gruppo degli uomini decise che "computer" dovesse essere decisamente femminile"la computadora"perchè:1.Nessuno tranne il loro creatore capisce la loro logicainterna.2.Il linguaggio che usano per comunicare tra computer èincomprensibile.3.Anche il più piccolo errore viene archiviato nella memoria a lungotermine per possibili recuperi futuri.4.Non appena decidi di comprarne uno, ti ritrovi a spendere metà del tuo salario in accessori.Il gruppo delle donne,invece, concluse che i computer dovessero essere maschili (el computador)perchè:1.Per farci qualunque cosa, bisogna accenderli.2.Hanno un sacco di dati ma non riescono a pensare da soli.3.Si suppone che ti debbano aiutare a risolvere i problemi, ma perla metà delle volte,il problema sono LORO;4.Non appena ne compri uno, ti rendi conto che se avessi aspettatoqualche tempo,avresti potuto avere un modello migliore.Le donne vinsero.