Volersi bene a tutti i costi o imparare i conflitti?(F. Fornari)
In questi giorni si fa un gran parlare degli episodi di violenza da parte di adolescenti ai danni di coetanei. Atteggiamenti istintivi dettati da una scarsa capacità di riconoscere i propri limiti. A scuola si adotta spesso un atteggiamento incredibilmente soft nei cui confronti si riservano parole fin troppo comprensive: «Si tratta di ragazzi vivaci che vanno recuperati...». Con qualche ceffone? Guai a usare le mani: queste possono alzarle solo gli studenti sui professori. Nella pedagogia tradizionale il conflitto è incluso nelle esperienze da evitare, come nel caso dei litigi fra i bambini dove la maestra è sempre preoccupata, anche in funzione dei genitori, di impedire che i bambini bisticcino o non vadano in crisi in modo da creare una sorta di bonifica interna che è a totale carico distruttivo. Viceversa esiste un filone pedagogico che vede nell'educazione una forma di cambiamento, una possibilità di trasformazione sia individuale che sociale, una rottura degli schemi tradizionali, e una individuazione di nuovi percorsi con valore di cambiamento personale e collettivo. “La pace porta alla reimportazione del conflitto” cioè il conflitto va reimpostato internamente, questa è la pace. La pace è conseguenza del conflitto, non dell’assenza dei conflitti, l’assenza dei conflitti è pericolosa”. È molto raro che si pensi all'educazione come a qualcosa che cambi la situazione. L'educazione alla pace ha dunque spesso e volentieri un significato di tranquillizzazione, ed è un grosso e pericoloso equivoco. La nostra percezione comune è che il conflitto sia guerra, ma è comunque un'esperienza quotidiana. La vita è una serie di conflitti che decidiamo di gestire in un modo oppure nell'altro. Il fenomeno educativo di oggi rivelante è una maternalizzazione talmente accentuata che il conflitto genera una vera e propria sensazione di minaccia, dove le regole non vengono messe in atto perché creano conflitti e quindi bisogna stare dentro una simbiosi assoluta in cui il volersi bene ha sostituito il concetto di benessere. Da una educazione autoritaria, fondata quasi esclusivamente sulle regole, sui doveri, su di un codice prettamente paterno, si è passati ad un’educazione molto protettiva e accondiscendente, tipica del codice materno. Il Novecento, per evitare ogni frustrazione, ha visto nascere un nuovo modo di educare sulla coccola eccessiva, foriera di noie e vuotaggine. Naturalmente questa prevalenza del codice materno sposta l’attenzione sulla nascita di ansie legate alla paura che i bambini stiano male e tende maggiormente a giustificare, a sostituirsi in qualche modo al bambino. Il conflitto può spaventare, anche perché spesso riporta alla vicenda personale dell’educatore, alla sua storia particolare, ai suoi vissuti, alle sue emozioni. A scuola, il conflitto è vissuto come scontro aperto, come momento di rottura e confusione, logica dura da smantellare. Si sta bene quando i bambini si vogliono bene, quando tutto fluisce in armonia. In nome dell’armonia si tenta di allontanare il più possibile il conflitto colto come problema e il desiderio di riportare subito la calma ha la prevalenza su tutto. Ecco allora la tendenza a sfuggire dal conflitto, a evitarlo in tutti i modi. L'educazione tradizionale ha sempre visto il conflitto come opposizione all'autorità. Anche all'interno dei modelli educativi più aperti il conflitto ha spesso significato l'attivazione di ansie di separazione non sempre tollerabili dall'educatore. Certo, il conflitto è un contrasto. Negare il conflitto, però, è negare uno spazio di creatività in cui attivare competenze legate alla comunicazione e alla negoziazione. Il conflitto è una possibilità, e può essere positivo o negativo a seconda di come lo usiamo. Bisogna vedere l'arte del conflitto come l'arte dell'educazione alla pace, rovesciando i tradizionali schemi che vedono invece l'educazione alla pace come l'arte dell'armonizzazione, della tranquillizzazione e dell'evitamento del conflitto.È questa la la grande sfida: non si tratta di educare a pensare come vogliamo noi, ma riuscire a fare in modo che noi stessi e le nuove generazioni ci abituiamo a pensare, a essere consapevoli di quello che stiamo facendo, e quindi pronti ad attivare risposte creative. L'obbedienza non è sempre una virtù: lo ha detto don Milani. Trovare la giusta distanza e il giusto equilibrio vuol dire far sentire il proprio affetto ai figli o agli alunni, ma senza cadere nell'intrusione, di cui parla spesso e volentieri Winnicot. Vuol dire comunicare, ma non giudicare, può voler dire collaborare, ma non entrare in collusione. I conflitti nei bambini sono per loro una forma di apprendimento sociale, può rappresentare un momento di riconoscimento della mondo circostante che pone dei vincoli e dei limiti al proprio mondo egocentrico e autoreferenziale. I conflitti non sempre sono semplici, necessitano di molto tempo, per cui non dobbiamo pensare immediatamente alla soluzione. La scuola è quel luogo dove si possono maggiormente osservare i conflitti poiché sia il gruppo che le regole vengono composte indipendentemente dalla scelta del bambino. Ci sono una serie di conflitti che sono assolutamente naturali, sono ovvi, né più né meno come crescere e respirare e potrebbero nascere da svariate cause tra cui l’iperprotezionismo o la troppa indulgenza da parte dei genitori in nome dell’amore per i loro figli. I bambini hanno il diritto di trasformare il conflitto in una vera occasione di crescita e apprendimento per imparare quell’arte della convivenza che è una vera e propria alfabetizzazione primaria. Il comportamento dell’adulto, educatore o genitore, è spesso di tipo giudicante. I bambini hanno il diritto di poter imparare a gestire i propri conflitti, senza delegare l’adulto a farlo per loro intervenendo con considerazioni spesso gratuite e a sproposito. L’educatore dovrebbe essere orientato ad una decantazione narrativa con “dammi la tua versione”. L’adulto in questo caso diventa una sorta di mediatore, un facilitatore della dinamica, ma il processo viene attivato dai bambini stessi. Gli interventi “a lungo termine” si basano sull’atteggiamento autorevole dell’adulto per cercare di capire il bisogno che genera il conflitto e provare a dare risposta a quel bisogno. Aiutare i bambini a far emergere le cause del conflitto, ad esprimere quello che sentono instaurando un clima in cui la collaborazione rientri normalmente nella relazione tramite una comunicazione efficace che sostenga l’efficacia dell’intervento educativo, non tanto per scoprirne la causa quanto per correggere quei comportamenti sbagliati acquisiti in un determinato contesto culturale per imparare a divenire genitori di se stessi.