Solleviamoci, è ora
Noi siamo quelli
che se ne vanno
pieni di vento
e di sole
in deserti
affollati
di illusioni
e non tornano più
abbagliati
da spaccati di vita.
Siamo riflessi
di affetti
profondi.
Pensieri
di fresca rugiada
posata sulla notte
che non conosce
nuvole.
Siamo i sospesi
tra sogno e realtà,
quelli sul sottile confine
tracciato
dai meandri
dei desideri.
Siamo splendide bugie
di una terra
che fatica
ad alzarsi
sui marciapiedi
della vita.
Siamo polvere
di un tempo
inesorabile
che ci riporta
tra le caverne opache
dei ricordi.
Siamo l’urlo
di amici perduti
non ancora tornati,
che raccoglie
sogni lanciati
su nuvole rosa
gonfie di cuore
nel cielo sospeso
della gioventù.
Siamo parole
mai dette
intrappolate
tra i rami
scheggiati
di un inverno
che fatica
nel risveglio.
Siamo vita
che scoppia
nei focolai spenti
accesi dal giorno che nasce
a dispetto di tutto.
Preghiere
Strappate ai silenzi
concessi da un Dio
che non ama
piangersi addosso.
Siamo
l’andata e il ritorno
di noi stessi.
Solleviamoci.
E’ ora.
PAESE MIO
Paese mio
cinto a primavera
di riccioluti gorgheggi
affaccendati
come comari
nel via vai del giorno
ti vai combinando
tra nuvole ariose
all’orizzonte
e sogni fermi
dietro vetri antichi.
Tu non conosci gli anni.
Il tuo grembo
avrà sempre un vecchio
davanti ai tuoi tramonti
aggrappato
ai sapori di campagna
mentre torna stanco
con le zolle in mano
cantando
la fatica della terra.
E non conosci spazi.
Sei tutto lì
che vivi di germogli
seminati
nei cuori della gente
che s’adatta
all’ombra
dell’inverno
mentre fuori
è estate.
Per questo
non ti mancano
i sorrisi
strappati ai vicoli
intrecciati e bui
come strette di mano
nel bisogno
tra calde mura
di camini accesi.
Tra gli alberi d’ulivo
bagnati di sole
che lasciano un’impronta
tra le rughe
dei ricordi
che strada voltando
riporta
inesorabilmente
a te.
mostra di poesie
mercoledì 29 agosto 2007
Il mito di Edipo e la Sfinge
“Laio, re di Tebe, fu un giorno informato da un oracolo che il figlio appena nato lo avrebbe un giorno ucciso per poi sposare sua moglie. Quando Giocasta mise alla luce un figlio, Laio praticò due fori nei piedi dell'infante (forse per esporlo, appendendolo alle intemperie, o per farlo morire dissanguato o per evitare che dopo la sua morte il suo spirito potesse camminare) e lo consegnò ad un pastore tebano con l'incarico di abbandonarlo sul monte Citerone ma invece lo portò a Polibo, re di Corinto, senza prole. Polibo impose il nome Edipo al bimbo perché in Greco significa 'dai piedi gonfi', conseguenza dell'esser stato appeso per i piedi. Una volta adulto Edipo si recò dall'oracolo di Delfi che ripetè quanto era già stato detto a Laio. Convinto sempre di esser figlio di Polibo, pur di scongiurarne l'uccisione per mano sua e il successivo incesto con la presunta madre, Edipo decise di non tornare più a Corinto. Durante il suo viaggio, però, in corrispondenza di un incrocio, incontrò uno straniero (Il Re Laio, suo padre) che viaggiava su un cocchio. L'auriga di Laio ordinò ad Edipo di cedere il passo, ma egli rifiutò. L'auriga allora gli ferì un piede con una ruota e lo percosse con un bastone. Edipo allora, colmo di furore, lo uccise insieme agli altri, ivi compreso il suo vero padre, con l'esclusione di un servo che riuscì a scappare. La prima parte della profezia si era avverata. Proseguendo il suo viaggio, Edipo si imbattè nella Sfinge [Sfinge: dal greco Sphínx, con riferimento al verbo greco sphíngein (stringere), con significato di 'strangolatrice' una creatura con testa di donna, ali di aquila, corpo di leone e coda di drago. La Sfinge bloccava il passaggio dei viandanti su una delle strade che portava a Tebe: chi voleva proseguire doveva risolvere il quesito che essa puntualmente proponeva ai malcapitati, pena il venire divorati o precipitati giù da una rupe. Si trattava, per dirla alla moderna, di un duello all'ultimo sangue: uno dei due non ne sarebbe uscito vivo. Se l'interrogato non riusciva a sciogliere l'indovinello veniva ucciso dalla Sfinge; in caso contrario sarebbe morta la Sfinge. Il quesito proposto era: “Chi è quell'animale che all'alba cammina con quattro zampe, a mezzogiorno con due, al tramonto con tre? “La risposta corretta, data da Edipo, fu: “L'uomo perché da bambino cammina carponi, da giovane e adulto con le sue due gambe, da vecchio aiutandosi col bastone” Edipo ebbe la strada libera per arrivare a Tebe dove fu accolto come un eroe. Ricevette, come ricompensa per aver liberato la regione da quel flagello che era la Sfinge, Giocasta in sposa, offertagli da Creonte suo fratello, divenuto re alla morte di Laio. Edipo ebbe da Giocasta quattro figli: Eteocle, Polinice, Antigone e Ismene. Anche la seconda parte della profezia si era avverata. L'indovino Tiresia rivelò a Edipo la verità: lui era l'assassino di Laio. Venuta a conoscenza di ciò, Giocasta si suicidò mentre Edipo si accecò e cominciò a vagare per la Grecia, amorevolmente accompagnato dalla figlia Antigone. “La Sfinge insomma è l'emblema dei problemi di comunicazione(dal lat. cum = con, e munire = legare, costruire, intesa come un processo di trasmissione di informazioni per "far conoscere", "render noto"). Il colloquio appena cominciato finisce, prima di tutto perché uno dei due interlocutori muore immediatamente e, in secondo luogo, si tratta di un colloquio apparente. L’interlocutore non arreca alcuna informazione alla Sfinge. Anche se scioglie l’indovinello non dice alla Sfinge nulla di nuovo, giacché le dice qualcosa che essa già conosce. Più che di comunicazione si tratta di un’autocomunicazione della Sfinge con se stessa, dove l’interlocutore viene ridotto a suo mero duplicato narcisistico. Il mito di Edipo, pur in versioni e forme diverse, è un mito comune ai popoli del mondo e per tale universalità ha acquisito un'importanza capitale presso gli studiosi che si occupano di scienze umane. Quando Edipo pronunciò trionfante la parola risolutrice dell’indovinello della Sfinge, decretandone la sconfitta e la morte, credette di aver vinto per sempre la mostruosa minaccia che, alle porte della città, assediava la vita degli uomini. Sicuro del fatto suo, entrò allora nella città e prese baldanzoso il potere. Ignorava di portare con sé l’infezione della Sfinge e le conseguenze morbose del suo, apparentemente, futile indovinello. Proprio rispondendo a tono era caduto nel tranello della Sfinge e ne realizzava involontariamente il mostruoso desiderio. Fu così che Edipo, dice Maurice Blanchot, portò nella città la “peste della politica”, ovvero la cancrena del potere che impone anzitutto il suo silenzio, stabilendo chi ha diritto di parola e chi no, e quale parola ha valore, perdura e fa storia, e quale invece non è che sperpero effimero di voce, subito inghiottita dal silenzio. Di certo quella risposta non ha ancora salvaguardato qualsivoglia umanismo o umanesimo dalla mostruosità del desiderio della Sfinge, né dall’orrore della violenza del potere fine a se stesso. C’è bisogno forse di un essere davvero capace di “prevedere con intelligenza” e magari di usarlo con più giustizia e amore. La storia dell'uomo chiamato Edipo, che è la storia di ognuno di noi, è la storia di una sofferenza che ci fa vivere, la storia che va in cerca della verità. Tutta la terra parlava una sola lingua e usava le stesse parole. Poi gli uomini dissero: “Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra”. Ma il Signore discese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: “Ecco, essi sono un solo popolo ed hanno una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera ed ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, affinché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro”. Il Signore li disperse su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra. La Bibbia ci presenta il castigo di Dio dall’orgoglio umano sempre portato a mirare la propria grandezza dimenticando i suoi disegni. L’unità sarà restaurata non per volontà degli uomini, non in un’unione politica o naturale bensì per opera soprannaturale di Dio e nella carità. Questo racconto della Genesi, costituisce un esempio di utopia. Non sono i concetti, le idee, le filosofie, le religioni in sé a dividere l’umanità e a porci gli uni contro gli altri e contrapposti all’unità di Dio, bensì il fatto di non accettarne la diversità, la preziosa e feconda diversità, la ricchezza delle varie possibilità espressive e percettive che poi conduce alla “confusione della lingua”, alla incomprensione, alla divisione e al conflitto, l’unità non si raggiunge passando per la “cima” della Torre e la sua “porta” al “Cielo”, ma distruggendo la torre stessa che ci siamo costruiti, che ci stiamo fabbricando con la mente. Il saper ascoltare, senza prevaricazione o pregiudizi, ed ascoltarsi, prestando attenzione non solo al contenuto razionale ma anche a quello emotivo, è il presupposto necessario per evitare molteplici inutili incomprensioni che portano ai conflitti comunicativi.
Articolo pubblicato da Sina Mazzei sul settimanale " Settimana di Calabria"
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